«Siamo molto preoccupati sia per i livelli allarmanti di diffusione e gravità, sia per i livelli allarmanti di inattività»: quando l'11 marzo scorso l'Organizzazione Mondiale della Sanità ha dichiarato l'infezione da nuovo coronavirus una pandemia, ha anche sottolineato la sua contrarietà per la scarsa collaborazione di alcuni Paesi, che non prendono misure adeguate per contrastare la COVID-19.
Come ha ricordato Tedros Adhanom Ghebreyesus, Direttore Generale dell'OMS, la pandemia da coronavirus è controllabile: ma i governi che decidono di rinunciare alle fondamentali misure di salute pubblica (come l'individuazione dei casi o le misure di distanziamento sociale) potrebbero ritrovarsi nei prossimi giorni a gestire un problema ben più grande, come il sovraccarico di sistemi sanitari non sempre efficienti e organizzati (come finora si è dimostrato quello italiano).
In un momento storico in cui l'infezione da coronavirus è diffusa ormai in oltre 110 Paesi e ha ucciso più di 4.300 persone, sembra mancare una gestione unitaria e coordinata della situazione; nonostante gli appelli alla solidarietà, fioccano i nazionalismi e i "si salvi chi può". Eppure un piano, per le situazioni come questa, esiste già: 15 anni fa, in risposta ad alcuni problemi nella gestione della SARS, ci fu una revisione del Regolamento sanitario internazionale, uno strumento giuridico che dovrebbe "garantire la massima sicurezza contro la diffusione internazionale delle malattie, con la minima interferenza possibile sul commercio e sui movimenti internazionali, attraverso il rafforzamento della sorveglianza delle malattie infettive mirante ad identificare, ridurre o eliminare le loro fonti di infezione o fonti di contaminazione, il miglioramento dell'igiene aeroportuale e la prevenzione della disseminazione di vettori".
L'idea è che in caso di pandemia, tutti i Paesi delle Nazioni Unite debbano aggiornare costantemente l'OMS sulla situazione epidemica al loro interno, nonché condividere ogni informazione scientifica utile a contrastare l'infezione. Dal canto suo, l'OMS dovrebbe occuparsi di coordinare gli sforzi di contenimento, notificare le emergenze e diffondere raccomandazioni di cura e prevenzione. La revisione è stata firmata da 196 Paesi (inclusi gli Stati Uniti), ma nel pieno della crisi, le cose non stanno andando nella direzione stabilita.
Chiusure e silenzio. Decine di Paesi non stanno eseguendo test né riportando all'organizzazione i numeri interni dei contagi. Tedros Adhanom Ghebreyesus lo ha ricordato più volte - senza però fare nomi - dicendo che il rifiuto di condividere i dati sanitari è una delle sfide più grandi che l'OMS si trovi ad affrontare.
Intanto, oltre 70 Paesi hanno istituito restrizioni internazionali sui viaggi senza notificarlo all'OMS, contraria al provvedimento. Restringere il traffico aereo è controproducente: ostacola la circolazione di rifornimenti e personale sanitario e non ha un reale impatto sul contenimento dell'epidemia (come abbiamo visto in Italia).
Solo 45 tra i Paesi che hanno adottato restrizioni unilaterali sul trasporto internazionale aggiornano in modo preciso l'OMS sui numeri del contagio nel proprio territorio. Alcuni hanno imposto limiti all'esportazione di materiale protettivo, per proteggere prima il personale sanitario del proprio Paese.
scappatoia legale. Come ricorda il New York Times, tutto ciò è possibile perché, anche se gli accordi sul piano in caso di pandemia sono legalmente vincolanti, gli Stati aderenti hanno il diritto di adottare misure sanitarie che ritengono possano avere migliori risultati di quelli dell'OMS, a patto che i provvedimenti abbiano basi scientifiche solide, e che vengano notificati all'OMS entro 48 ore. Anche così, l'organizzazione ha spesso appreso le misure adottate in ritardo e attraverso i media. A pesare sulle "mani legate" dell'OMS è anche la necessità di fondi: per l'emergenza coronavirus servono 675 milioni di dollari, e finora sono stati raccolti impegni per donazioni che coprono meno della metà della cifra. Difficile tuonare contro potenziali Paesi finanziatori.