La speranza che il SARS-CoV-2, il coronavirus che causa la CoViD-19, se ne fosse andato così com'era venuto si è definitivamente spenta. In varie zone d'Europa sorgono nuovi focolai epidemici, i casi aumentano e con essi le misure restrittive. La Spagna, uno dei primi Paesi dove i numeri sono ricominciati a salire, nel momento in cui scriviamo conta oltre 260.000 casi attivi; la Francia quasi 200.000; il Regno Unito oltre 293.000; l'Italia circa 25.000 (qui i dati del mondo aggiornati in tempo reale). Le parole "seconda ondata" sono (impropriamente) sulla bocca di tutti, c'è chi teme una seconda quarantena e chi invece sostiene che il virus non sia più letale come prima. Quello che è importante sottolineare guardando ai nuovi numeri della covid (che, lo ripetiamo spesso, vanno comunque presi con le pinze e contestualizzati) è che non possono essere paragonati a quelli della scorsa primavera: durante la quarantena, infatti, i tamponi effettuati erano in quantità di gran lunga minore rispetto ad ora, e i casi erano di più e più gravi. Ora che la pandemia sembra essere un po' più sotto controllo, si effettuano test anche a chi è asintomatico o con sintomi lievi e anche per questo si rilevano più casi.
Se è vero che capire come andrà a finire è ancora impossibile, diventa fondamentale capire come comportarsi per contrastare una nuova diffusione del virus. La rivista The Conversation ha provato a chiedere a tre esperti di diverse nazionalità (francese, britannica e spagnola) quale sia il modo migliore di affrontare l'insorgere di nuovi focolai epidemici in Europa: ecco cos'hanno risposto.
La visione francese. Secondo Dominique Castagliola, epidemiologa all'Istituto nazionale francese per la ricerca sulla salute e la medicina (INSERM), è ancora difficile sapere quanto si stia sottostimando la pandemia: uno studio recente (ancora non rivisto in peer-review) ha fatto emergere che a maggio, in Francia, veniva rilevato solamente un sintomatico su dieci.
L'immunità di gregge, fondamentale per porre fine all'incubo pandemia, è molto difficile da raggiungere senza un vaccino: se il virus circolasse in modo uniforme (e nel caso di SARS-CoV-2 sembra essere vero il contrario), dovrebbe infettarsi il 60-70% della popolazione – o, come suggeriscono alcuni, "solo" il 50% (ma attualmente appena il 10% della popolazione mondiale ha contratto l'infezione).
Sarebbe pericoloso lasciare circolare liberamente il virus in alcuni gruppi specifici, ad esempio i giovani, sperando che lavori "a compartimenti stagni": i giovani non vivono separati dai più anziani, e prima o dopo finirebbero con infettare anche le fasce più deboli.
Castagliola porta ad esempio la Florida, dove «per due o tre settimane sono aumentati i casi, ma non i ricoveri e i decessi». Un po' come sta accadendo anche in Itala: il virus si sta propagando tra una popolazione più giovane, e per questo ricoveri e decessi sono (per ora) bassi. Ma si tratta solo di una situazione momentanea: per diversi motivi, tra cui il fattore tempo (la malattia deve fare il suo corso), i dati su decessi e ricoveri iniziano a salire tra le tre e le sei settimane dopo l'aumento dei contagi. E se la Francia aspetta ad agire, «sarà troppo tardi», mette in guardia Castagliola. Cosa fare? Quello che si ripete da inizio pandemia: «controllare la circolazione del virus isolando i contagiati e tracciando i loro contatti rapidamente: questa è l'unica opzione per i prossimi mesi».


La visione britannica. Jasmina Panovska-Griffiths, professoressa alla UCL, sottolinea che il fatto che i casi stiano aumentando può significare tre cose: che ci troviamo di fronte a una seconda ondata; che l'epidemia si stia espandendo per aree, in focolai localizzati; oppure che siamo nel mezzo di un'unica, grande ondata. Se è vero che per ora è impossibile sapere di fronte a quale scenario ci troviamo, «è fondamentale comprendere meglio la situazione prima di riaprire le scuole». Secondo Chris Witty, consulente medico del governo, la Gran Bretagna avrebbe «raggiunto i limiti di ciò che può fare per tenere il coronavirus sotto controllo».
Gli studi di Panovska-Griffiths supportano le idee della collega francese: di fronte a questa nuova ondata di contagi, è fondamentale testare, tracciare e isolare gli infetti e le persone con cui sono state a contatto, realizzando il maggior numero di test PCR possibili non appena si presentino i sintomi.
La visione spagnola. Ignacio López-Goñi, professore di microbiologia alla Universidad de Navarra, sostiene che valutare la situazione è piuttosto complesso, soprattutto perché non esiste una definizione univoca, accettata globalmente, di cosa sia un caso di covid-19. In Spagna vi è inoltre il problema della discrepanza (che López-Goñi definisce «incomprensibile») tra i dati riferiti dal governo centrale e quelli comunicati dalle comunità autonome, dovuta a un diverso modo di considerare quali siano i nuovi contagi.
Quel che è certo è che la situazione attuale non è paragonabile a quella di aprile: ora, spiega López-Goñi, «stiamo effettuando migliaia di PCR, e analizzando la "parte sommersa" dell'iceberg.
In piena pandemia ne rilevavamo solo la punta». Nonostante la situazione non sia (per ora) allarmante, la tendenza è molto preoccupante: ogni settimana vengono identificati nuovi focolai epidemici, e i numeri continuano a salire. Per questo è fondamentale mantenere sotto controllo i contagi, adottando le misure di sicurezza che ormai dovremmo conoscere (e applicare) tutti: mascherine, distanziamento sociale e igiene. «È bene evitare luoghi chiusi e affollati», sottolinea inoltre López-Goñi, che ricorda: «Il virus non conosce frontiere: è fondamentale essere coordinati, tracciare i nuovi contagi e imporre nuove quarantene mirate nelle zone più colpite. Bisogna evitare in ogni modo che il virus raggiunga nuovamente gli ospedali».