Funziona la ricetta per guarire con le note? Che scientificità c’è nella musicoterapia? Sembra aiutare in alcuni casi, ma che genere di cure può offrire?
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A chi piace e a chi no. Due bebè di pochi giorni in una clinica slovacca dove i neonati vengono quotidianamente sottoposti a 5 sessioni di ascolto di musica di 20 minuti ciascuna. Il tutto per alleviare lo stress della nascita e favorire la comunicazione da adulti. |
di Annalisa Infante
Il genio viaggia alla velocità del suono? È quanto affermano i sostenitori della celebre teoria denominata “Effetto Mozart”, secondo la quale, dopo una calibrata esposizione alla musica del compositore austriaco, potremmo diventare tutti più intelligenti.. Non solo: la musica di Mozart sarebbe in grado di calmare gli attacchi epilettici e di contenere i danni del morbo di Alzheimer. Cosa c’è di vero? La musica di Mozart (e quella classica in generale) cura realmente? È in grado di far star meglio i feti e i neonati a crescere? Cosa dice la scienza a questo proposito? Esistono ricerche scientifiche che confermano queste ipotesi?
Cerchiamo di fare un po’ di chiarezza.
Non solo Amadeus…
In realtà non sarebbe corretto riconoscere il merito dell’azione benefica della musica sulla psiche umana a un solo autore. La Musicoterapia insegna come pressoché tutti gli autori classici abbiano lavorato in modo tale da dar vita a melodie “terapeutiche”: «Per quanto riguarda gli adulti – spiega Renato De Michele, Musicoterapista e presidente dell’Associazione Italiana Registro Musicoterapia – la predisposizione verso una musica piuttosto che un’altra dipende dall’identità culturale di ciascuno, dalle esperienze ambientali e familiari. Le variabili personali sono troppe per poter affermare con sicurezza che una musica standard possa avere universalmente effetti migliori di un’altra». Così, se una persona ha ricordi piacevoli legati a Mozart, reagirà positivamente alla sua musica, ma non più di quanto un’altra, che adora Bach, possa reagire all’ascolto di quest’ultimo.
Su questo principio si basa la musicoterapia “recettiva” o “d’ascolto”, utilizzata su pazienti affetti dalle patologie più diverse (da quelle psichiche a quelle degenerative) allo scopo di garantire loro un miglioramento della qualità di vita. Durante la seduta, il musicoterapista propone diverse musiche, sia quelle legate alla storia del suo paziente sia quelle “suggeritegli” dall’esperienza personale e dalla propria risposta emotiva all’incontro.
Musica e maternità
«Il vero grosso effetto della Musicoterapia d’ascolto – continua De Michele – è però quello sul feto durante la gravidanza. La sua reazione all’ascolto degli autori classici è evidente: se la melodia è piacevole e dolce, il feto “danza” armonicamente all’interno del ventre materno e se è nervoso si calma. Quando la musica invece non gli è gradita, come può accadere, per esempio, con musiche disarmoniche o in cui le percussioni sono troppo forti, il bimbo si agita, scalcia, si muove a scatti».
L’ideale – secondo alcuni musicoterapeuti sarebbe poter disporre di sale-parto dotate di pianoforte. Le apparecchiature, infatti, non sempre sono in grado di garantire frequenza e volume del suono ottimali.
Già da qualche anno un ospedale di Mantova propone alle gestanti sedute di Musicoterapia, durante le quali si ascoltano, ad esempio, i “Concerti Brandemburghesi” di Bach, “Le quattro stagioni” di Vivaldi, o la musica New Age, in grado di rilassarle. Al momento del travaglio, viene insegnato loro a trasformare i gemiti di dolore in canto “salutare” per se stesse e per il loro bimbo. «Il mondo sonoro del piccolo nel periodo prenatale – spiega De Michele – è costituito principalmente dalla voce della mamma, dal ritmo del suo respiro, dal battito del suo cuore e dai suoni che, ovattati, gli provengono dall’esterno. Sappiamo che dopo la nascita il bimbo sarà in grado di riconoscere musiche ascoltate in gravidanza. E in ogni caso, un feto educato all’ascolto della musica sarà un bambino più tranquillo dopo».
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Ozzy Osburne con moglie e figlia a una serat adi gala per raccogliere fondi per il Nordoff Robbins Music Therapy Centre, una delle principali cliniche di musicoterapia inglese. La musica della rock star, però, non è adatta per lenire alcun genere di distrubo. |
La musicoterapia, però, non funziona solo “in ascolto”: esiste un metodo, definito convenzionalmente “attivo”, in cui musicoterapista e paziente suonano insieme utilizzando una vasta gamma di strumenti a percussione, dai tamburi, alle maracas, agli xilofoni, fino a strumenti anche non convenzionali (una matita battuta ripetutamente sul pavimento, cucchiai, suoni prodotti con le mani o con la bocca). Terapista e paziente, in questo caso, improvvisano suoni, ritmi e melodie, utilizzando le sonorità prodotte come mezzi attraverso i quali comunicare l’uno all’altro emozioni e stati d’animo. Tutto questo, allo scopo di costruire tra loro una relazione “positiva”.
«In musicoterapia – spiega Claudio Bonanomi, direttore della Scuola di Musicoterapia di Lecco – il punto di partenza è sempre il suono prodotto dal paziente. L’assunto di base è che ogni sonorità ha un senso proprio e ben definito, che può essere subito chiaro oppure no. Nostro compito è quello di cogliere il messaggio nascosto e di dare una risposta sonora adeguata, con gli strumenti che abbiamo a disposizion». Questo “dialogo sonoro” tra terapista e paziente ha lo scopo di permettere alla persona (o alle persone, in caso di seduta di gruppo) di raggiungere il benessere e, in definitiva, di “stare meglio” all’interno del proprio mondo.
Musicoterapista o sciamano?
La musicoterapia utilizza il suono, quindi, per produrre una “trasformazione” positiva da uno stato di disagio a uno di benessere. Un effetto stupefacente che affonda le sue radici nel potere della musica di indurre stati di trance, descritti dagli etnomusicologi di quasi tutte le culture. Caratterizzati da canti e balli estatici, movimenti e pianti convulsi, oppure tremori ritmici, rigidità o immobilità simili a fenomeni catatonici, influiscono a livello motorio, emozionale, psichico e sul sistema nervoso autonomo e culminano in stati di coscienza profondamente alterati.
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E lo stesso accadeva in diverse forme di possessione, di cui un esempio italiano è il fenomeno del “tarantismo” del secolo scorso, vale a dire la malattia data dal morso di una fantomatica tarantola. Anche allora la persona (di solito donna) veniva sottoposta a una sorta di “musicoterapia” e spinta a ballare freneticamente in modo da liberarsi dal male.
E oggi, qual è il ruolo del musicoterapista? Musicoterapista-sciamano o musicoterapista-dottore? Qual è la credibilità che possiamo attribuire a questa scienza così nuova e particolare? In realtà il musicoterapista non è un guaritore, ma nemmeno un medico.
È necessario che il suo lavoro sia tenuto sotto stretta osservazione da parte di una figura sanitaria in grado di seguire l’intervento. Sarebbe un errore, infatti, trasformare un terapista di questo tipo in una figura autonoma con responsabilità che non è in grado di affrontare, dal momento che non ha alle spalle un percorso universitario quale può essere quello di un medico. Insomma, il lavoro del musicoterapista dovrebbe essere inscritto all’interno di un lavoro, più ampio, d’equipe. «C’è ancora molto da fare nel nostro campo – conclude Bonanomi -. Ad oggi non abbiamo un metodo di misurazione dei risultati come può essere il metodo scientifico. Cioè non possiamo purtroppo “quantificare” ciò che otteniamo in terapia».
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Una bambina autistica durante una sessione di musicoterapia presso il Nordoff Robbins Music Therapy Centre. |
Musicoterapia, vero o falso?
Non c’è possibilità alcuna di dimostrare scientificamente, dunque, che la musicoterapia faccia bene o meno. Fino a che non si ottiene un metodo in grado di quantificare i risultati la questione è fidarsi o non fidarsi. Ci sono studi condotti anche con metodi scientifici ma su pochi casi; racconti di pazienti e controindicazioni, ma "prove provate", decisamente poche.
Molte le controversie, prima fra tutte quella che riguarda gli stati di coma per cui non c’è prova che la musica sia in grado di risvegliare un paziente come comunemente si crede. E per molti è ancora difficile cogliere una netta distinzione fra musicoterapia vera e propria e training autogeno o altre terapie alternative condotte con l’uso della musica. Purtroppo, ai molti interrogativi che suscitano questi aspetti, non c’è risposta certa. Oltretutto sembra che in qualche caso una terapia di questo tipo – oltre a non produrre benefici o a non avere nessun tipo di effetto – sia anche controindicata: nel caso dell’epilessia, per esempio, bisogna andare veramente, come si suol dire, “coi piedi di piombo”. «Con questi pazienti ogni stimolo sensoriale particolarmente forte – spiega De Michele – in teoria potrebbe dar origine alle crisi . E anche in questo caso si raccomanda a maggior ragione di non intervenire senza l’aiuto di un medico di riferimento».
Drogati dalla musica?
Ma le controindicazioni non si fermano all’epilessia. La musicoterapia è anche sconsigliata nel caso in cui una persona abbia subito traumi legati in qualche modo all’ascolto della musica. Prendiamo quanto succede – purtroppo sempre più spesso – nelle discoteche, per cui la massiccia assunzione di droghe può scatenare episodi psicotici. In questo caso, droga musica e follia si legano in un mix distruttivo, per cui capita che il solo ascolto di musica “disco” possa scatenare l’episodio psicotico anche in assenza di assunzione di droga. «È un meccanismo di associazione e condizionamento riflesso – conclude De Michele -. In situazioni come queste, la musica potrebbe indurre, da sola, effetti simil-droga, in particolare la musica da discoteca. Sono casi a cui bisogna porre la massima attenzione e per cui un tipo di terapia che utilizzi i suoni, come la nostra, è assolutamente da sconsigliare. In tutti gli altri casi la musicoterapia non può produrre altro che benessere».