Persone che si addormentano all'improvviso e nelle situazioni meno opportune: la maggior parte di noi conosce la narcolessia dalla rappresentazione un po' superficiale di questo disturbo del sonno in film e serie TV, ma fino a una ventina di anni fa, nessuno ne sospettava vagamente le cause.
Se le cose sono cambiate è grazie soprattutto a Emmanuel Mignot, un gigante nelle ricerche sul sonno da poco insignito, con il collega giapponese Masashi Yanagisawa, del Breakthrough Prize 2023, l'Oscar della Scienza da tre milioni di dollari che le grandi aziende della Silicon Valley assegnano alle ricerche che potrebbero cambiare il mondo.
Una condizione invalidante. Mignot e Yanagisawa, rispettivamente alle Università di Stanford (California) e Tsukuba (Giappone) sono arrivati in modo indipendente a comprendere il meccanismo molecolare che scatena la narcolessia, aprendo la strada a una nuova generazione di farmaci che in una manciata di anni potrebbero cambiare la vita a centinaia di migliaia di pazienti.
La narcolessia, una malattia neurologica che colpisce una persona su 2.000 in Europa, Stati Uniti e Giappone, non comporta soltanto colpi di sonno improvvisi. Chi ne soffre cade molto rapidamente nel sonno REM, con sogni estremamente vividi e allucinazioni in pieno giorno, accompagnate dalla tipica paralisi muscolare che si ha mentre si sogna.
Un altro sintomo molto riconoscibile è la completa perdita di tonicità muscolare che si può verificare in seguito a una forte emozione, come quando uno scherzo o una battuta scatenano una risata: in queste situazioni può capitare che chi soffre di narcolessia si senta atonico, cioè del tutto incapace di muoversi per alcuni secondi o minuti (la cosiddetta cataplessia). Nella metà dei casi l'esordio della malattia avviene durante l'infanzia (per approfondire) e se non si arriva prontamente a una diagnosi fornendo l'assistenza necessaria, il peso della patologia può diventare gravoso.
Che cosa c'entrano i cani? Prima che Mignot si trasferisse dalla Francia alla California, sul finire degli anni '80, si era scoperto che anche i cani possono soffrire di narcolessia (Mignot stesso ha un cane, Watson, che è narcolettico e che porta con sé alle cliniche del sonno per spiegare a pazienti e studenti i sintomi della malattia).
«I cani dormono sempre, quindi è più difficile distinguere la malattia» ha spiegato lo scienziato in un'intervista al Guardian, che potete ascoltare qui (in inglese). «Ma lo si capisce perché quando sono eccitati, per esempio perché gli si dà da mangiare qualcosa di buono.
.. si paralizzano. Nei cani la narcolessia è puramente genetica. Se fai accoppiare due cani narcolettici, lo saranno anche tutti i loro cuccioli. Nell'uomo non è così, esiste una predisposizione genetica che tuttavia non è determinante. Sapevo che da qualche parte nel genoma del cane doveva esserci un piccolo cambiamento genetico che causava tutto questo» racconta Mignot.
Da qui la decisione di cercare l'origine della malattia nel DNA canino. Una scelta a dir poco rischiosa, per un non-genetista e in anni in cui il genoma umano non è ancora stato sequenziato.
Serrature e chiavi. Ci vogliono 10 anni, ma alla fine Mignot e il suo team trovano il gene responsabile, incaricato di codificare per due recettori di membrana nel cervello. I recettori di membrana sono "porte" sul rivestimento delle cellule che riconoscono le molecole all'esterno e che, se attivati dalla molecola giusta, danno il via a una cascata di risposte chimiche che cambiano il comportamento di un organismo. In pratica Mignot ha trovato la serratura: non è chiaro, però, quale sia la chiave di quei recettori.
Oggi lo sappiamo: è un messaggero chimico chiamato orexina. Siamo alla fine degli anni '90: dall'altra Parte del Pacifico, Yanagisawa e colleghi sono al lavoro per identificare il ruolo di centinaia di recettori cellulari vedendo quali proteine (peptidi) li attivano. Scoprono così che, se privati dell'orexina, i topi diventano narcolettici. Ecco la risposta: le chiavi per i recettori scovati da Mignot sono due forme di orexina (A e B). E infatti, prelevando fluido spinale da pazienti narcolettici, Mignot non trova tracce di orexina: nei cani con narcolessia l'orexina c'è, ma manca dove inserirla; nell'uomo invece, ci sono i recettori ma manca l'orexina - non è prodotta, oppure viene distrutta.
Sveglia! Di norma, nei sani, l'orexina ha due funzioni. Durante il giorno si accumula progressivamente, permettendo di stare svegli mano a mano che, allontanandoci dal risveglio, accumuliamo debito di sonno. Durante la notte diminuisce progressivamente e questo ci permette di saldare il nostro debito di sonno e dormire sonni tranquilli rispettando tutti gli stadi, dal sonno profondo al sonno REM. Ma perché in alcune persone l'orexina manca?
Autodistruzione. Ulteriori lavori di Mignot hanno appurato che la narcolessia è scatenata da un meccanismo autoimmune: per qualche ragione, nelle persone con narcolessia, i 70.000 neuroni dell'ipotalamo (una piccola struttura collocata al centro del cervello) che la producono sono distrutti dal sistema immunitario. Mignot ha paragonato il processo a quello che scatena il diabete di tipo I, in cui ad essere eliminate dal sistema immunitario sono però le cellule che producono insulina nel pancreas.
Non è tutto: la distruzione dei neuroni dell'orexina può essere innescata da un'infezione virale, in particolare dall'influenza.
Verso una terapia. La scoperta di cause biologiche e meccanismi autoimmuni ha aperto la strada al desiderio di tutti i pazienti che soffrono di narcolessia: farmaci efficaci per alleviare i sintomi. Allo studio ce ne sono due che imitano l'orexina, possono cioè attivare i suoi recettori cellulari per cancellare i sintomi della malattia. Sono ancora in fase di sperimentazione perché in alcuni casi hanno effetti collaterali a carico del fegato. Ma Mignot spera che entro i prossimi cinque anni possano essere disponibili per i pazienti.