Uno studio condotto su una remota tribù che vive nella foresta amazzonica ha messo in evidenza che il nostro stile di vita potrebbe incidere in modo significativo sulla varietà e ricchezza dei microrganismi che vivono in simbiosi con il nostro corpo. Come descritto dagli scienziati nel documento pubblicato su Science Advances, la decimazione di quello che viene chiamato microbioma avrebbe ripercussioni negative sulla nostra salute e potrebbe essere alla base di alcune malattie tipiche della "civiltà occidentale".
Il viaggio in Amazzonia. Il team internazionale di ricercatori ha studiato un piccolo villaggio sul versante venezuelano della foresta amazzonica, abitato da una comunità appartenente al gruppo etnico degli Yanomamo. Trentaquattro membri della tribù, la cui vita è trascorsa fino a poco tempo fa in completo isolamento dal resto del mondo, sono stati analizzati con tampone cutaneo e prelievi di saliva e feci. Lo scopo dei prelievi era di sequenziare il patrimonio genetico dei microorganismi che convivono naturalmente con gli indios.
Un microcosmo variegato. I risultati dello screening genetico hanno mostrato che questa tribù presenta una diversità microbica mai registrata prima, superiore del 30-40% anche rispetto ad altre popolazioni indigene che in Venezuela, pur mantenendo usi e costumi ancestrali, vengono sporadicamente a contatto con antibiotici e cibo industriale.
Un tuffo nel passato. Secondo i ricercatori è lo straordinario isolamento geografico di questi individui Yanomamo ad aver permesso la proliferazione di un così straordinario ecosistema batterico (il microbioma, appunto): per i ricercatori è stato come aprire una finestra sul passato, quando i nostri antenati non avevano accesso ad alcun comfort.
Bolla sterile. «I nostri risultati suggeriscono che l'occidentalizzazione porta alla riduzione della diversità della componente microbica», commenta Maria Dominguez-Bello, della New York University School of Medicine. Come spiega un altro autore dello studio, Jose Clemente della Icahn School of Medicine at Mount Sinai (New York), l'indagine condotta nella foresta pluviale suggerisce che pratiche comuni, come l'utilizzo di detergenti e saponi antibatterici, l'assunzione di antibiotici o il taglio cesareo (che impedisce al nascituro di venire a contatto con i batteri presenti nel canale materno) avrebbero determinato un drammatico calo dei microorganismi simbionti, il cui insieme può essere paragonato a un vero organo supplementare, utile soprattutto per il metabolismo e il sistema immunitario.
Il lavoro, concludono gli scienziati, fornisce lo spunto per approfondire il legame che intercorre tra microbioma, vita industrializzata e patologie diffuse nel mondo occidentale, come obesità, asma, diabete e allergie.
Un batterio al giorno... Dobbiamo quindi correre a fare incetta di probiotici? Sebbene la presenza di determinati microrganismi (ad esempio la flora intestinale, che popola il tratto digerente) sia essenziale per l'espletamento di specifiche funzioni vitali, la relazione tra microbioma e salute umana è molto complessa e ancora lontana dall'essere compresa a fondo.
Per questo motivo William Hanage, un epidemiologo di Harvard contattato da Popsci per un parere sull'argomento, ha sottolineato come sia «un passo troppo grande affermare che una maggiore diversità microbica equivalga necessariamente a un migliore stato di salute».
Resistenza agli antibiotici. Lo studio condotto da Maria Dominguez-Bello e colleghi ha fornito un secondo importante spunto di riflessione. Nonostante i batteri degli Yanomami siano risultati sensibili agli antibiotici, nel genoma di alcuni microrganismi è stata individuata la presenza di geni che, una volta attivati, conferiscono resistenza ai più comuni farmaci antibatterici. Dal momento che la tribù non era mai stata esposta ad alcun tipo di trattamento farmacologico, questa scoperta ha rafforzato un concetto già noto: il fenomeno della resistenza antibiotica non dipende solo da pratiche umane scorrette (come la prescrizione di cicli di antibiotici a scopo preventivo), ma deriva anche da meccanismi endogeni parzialmente sconosciuti, che i ceppi Yanomami potrebbero aiutare a capire meglio.