Senza una cura efficace per i 35 milioni di malati nel mondo, il morbo di Alzheimer è già oggi un’emergenza sanitaria. Rischia di diventarlo ancora di più: secondo le previsioni, i malati raddoppieranno entro quindici anni, fino a diventare 115 milioni nel 2050.
Una delle sfide dei ricercatori, oltre a trovare una cura, è mettere a punto un metodo rapido e sicuro per diagnosticare la malattia prima che i suoi sintomi, perdita della memoria e disturbi cognitivi di vario tipo, si manifestino. Gli scienziati sono convinti che anche i farmaci finora dimostratisi di scarsa o nessuna efficacia nelle sperimentazioni cliniche sui pazienti abbiano migliori chance di funzionare se somministrati prima che la malattia sia conclamata.
La diagnosi con l’analisi del sangue
Un passo avanti nella direzione di una migliore diagnosi precoce sembra venire da una ricerca pubblicata su Nature Medicine. I ricercatori del Georgetown University Medical Center a Washington hanno messo a punto un test facile e poco costoso per individuare nel sangue alcune sostanze che segnalano la presenza della malattia. Sono diversi i “biomarcatori” già noti del morbo di Alzheimer, e alcuni vengono già utilizzati, anche se non di routine, nella diagnosi. Il problema è che si tratta di analisi invasive, possibili solo con il prelievo del liquido cerebrospinale tramite una puntura lombare, e piuttosto costose. Per il nuovo test basterebbe invece un prelievo di sangue.
I ricercatori hanno individuato un set di dieci composti lipidici che, se presenti nel sangue, segnalano la fortissima probabilità di sviluppare nei due tre anni successivi una forma di demenza o il morbo di Alzheimer. L’esame, testato su 525 ultrasettantenni residenti in comunità che non avevano ancora alcun segno di malattia, è riuscito a individuare quelli che si sarebbero ammalati con un’accuratezza del 90%. Le sostanze ricercate con il test sono particolari componenti della membrana cellulare e secondo i ricercatori segnalerebbero le degenerazioni dei neuroni che precedono i sintomi della demenza.
Andamento anomalo
Anche un’altra ricerca, pubblicata su Science Translational Medicine, getta nuova luce sulla diagnosi e il monitoraggio della malattia con i biomarcatori. Anne Fagan e colleghi della Washington University School of Medicine a Saint Louis hanno scoperto qualcosa di inaspettato mentre studiavano l’andamento nel tempo del morbo grazie a due dei biomarcatori più conosciuti e usati, la proteina beta amiloide e la proteina tau.
La teoria più accreditata è che nelle persone più prossime all’esordio dei sintomi il livello di beta amiloide sia basso perché la proteina è trattenuta dalle placche che si formano nel cervello di chi si ammala, e che costituiscono il segno più caratteristico del morbo; il livello della proteina tau sarebbe elevato, segno che i neuroni iniziano a morire e la rilasciano nel liquido cerebrospinale. I ricercatori, invece, dopo avere raccolto nel corso di alcuni anni campioni di fluido di oltre duecento volontari affetti da una mutazione che provoca una forma precoce di Alzheimer si sono accorti di qualcosa di diverso: la proteina tau aumentava all’inizio della malattia, all’apparire dei sintomi, ma poi diminuiva una volta che i sintomi si erano manifestati (mentre la beta amiloide diminuiva secondo le aspettative).
La morale, suggeriscono i ricercatori, è che i biomarcatori non sono fissi, ma variano nel tempo a seconda dello stadio della malattia. Una sola misurazione, quindi, non è sufficiente per avere un’idea precisa di come sta evolvendo il morbo. Inoltre, capire perché ci siano queste variazioni è essenziale per sviluppare farmaci efficaci.
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