Com'è arrivato il virus in Turchia? Perché tanti casi? C'è da preoccuparsi? Le risposte alle vostre domande.
La vaccinazione di un bambino contro il virus dell'influenza aviaria nel paesino di Scarlatesti, a 200 chilometri da Bucarest (Romania). |
Tre morti, quindici infetti, e un centinaio di casi sospetti in attesa di conferma (di cui 30 bambini), oltre 300 mila polli sacrificati nei primi dieci giorni di gennaio, tre quartieri di Istanbul in quarantena: sono questi gli ultimi dati di una Turchia a prima vista assediata dall'influenza aviaria.
Oltre le barricate. I Paesi confinanti hanno risposto alzando le barricate: Italia, Russia e Gran Bretagna hanno sconsigliato i viaggi in Turchia. La Bulgaria ha inviato i suoi esperti ai confini con la Turchia per preparare la popolazione con la distribuzione di volantini. Romania, Germania e Grecia hanno messo in allarme dogane e aeroporti. L'Unione Europea ha bloccato le importazioni di polli, uova e piume non trattate dai paesi infetti e dai sei paesi confinanti con la Turchia.
E si affollano gli interrogativi. Eccone alcuni…
Come è arrivato il virus in Turchia?
Sembra sulle ali degli uccelli migratori. I primi focolai sono comparsi in un angolo della Turchia occidentale, vicino al Mar di Marmara, e poco più a occidente, vicino alla diga di Nallihan in un'ampia area umida sono stati individuate due anatre selvatiche infette.
Il virus è mutato?
«Nulla fa pensare per ora che il virus sia mutato» dice Guénaël Rodier, direttore del dipartimento di malattie infettive dell'Oms (Organizzazione mondiale della sanità) in missione in Turchia per verificare la situazione di persona.
La trasmissione ricalca quella già vista in Oriente, da pollo a uomo, non si sono registrati casi di infezione fra i sanitari, e neppure fra gli amici degli infetti, e non ci sono persone infette fra coloro che non sono venuti a contatto con polli malati o morti.
Perché tanti casi in Turchia?
Albert Osterhaus, virologo dell'Erasmus Medical Centre di Rotterdam in Olanda, che è riuscito a controllare l'epidemia di H7N7 verificatasi in Olanda del 2003, dice: «Le condizioni degli allevamenti in Turchia sono più simili a quelle dei paesi asiatici che a quelle europee. Anche in Turchia l'allevamento è prevalentemente nel cortile di casa».
«Il problema è che in Turchia c'è l'abitudine con l'arrivo del freddo di ricoverare i polli in casa» dice Rodier. «Inoltre nella fertilizzazione del terreno si usa il guano degli uccelli, ed è dimostrato che con il freddo, sotto i 4 gradi il virus può sopravvivere nelle feci degli uccelli anche 35 giorni». Quanto all'alto numero di bambini infetti, può essere attribuito all'usanza di fare dei pulcini i compagni di giochi.
E infine i due primi decessi si sono verificati nella stessa famiglia: due fratelli adolescenti che avevano giocato con le teste di polli morti per l'infezione. Nonostante questo però Rodier conclude: «Ho l'impressione che l'epidemia in Turchia sia controllabile in modo relativamente facile».
L'epidemia turca può aggravare il potenziale pandemico del virus?
No, secondo Osterhaus, i nuovi casi europei «non aumentano in modo particolare il potenziale pandemico del virus. A confronto con la situazione asiatica con quasi 150 casi di infezione, un paio di nuovi casi sulla frontiera europea non cambiano molto».
I casi sono forse sottostimati?
Nei dati c'è in effetti qualcosa che non va. Lo segnala Klaus Stohr, coordinatore del programma influenza dell'Oms.
In Asia con migliaia di focolai epidemici fra gli uccelli, ci sono stati 142 casi di trasmissione all'uomo. In Turchia, dove l'infezione negli uccelli è comparsa a ottobre, ci sono già almeno 14 casi di trasmissione all'uomo: tanti. E qui si entra nel mondo delle ipotesi.
O il virus turco è particolarmente contagioso, oppure in Asia molti casi sono sfuggiti all'identificazione. La prima ipotesi sembra smentita: l'epidemiologia non documenta un aumento dei casi di trasmissione uomo-uomo. Sulla seconda ci sono invece più dubbi.
Al momento in Turchia sono per esempio ricoverati due bambini risultati positivi al test, ma senza sintomi. Anche qui risposte certe non ce ne sono. Stohr ipotizza che in Turchia ci siano molti focolai non identificati. Ma forse è anche più attenta la medicina turca di quella per esempio vietnamita.
Anna Thorson del Karolinska Institutet di Stoccolma ha intervistato più di 45 mila vietnamiti: di questi, l'84% viveva insieme ai polli e il 26% aveva avuto morie di animali. Analizzando le risposte ha scoperto che nelle famiglie in cui c'erano state morie di animali, quasi 2 individui per famiglia avevano contemporaneamente manifestato sintomi simil-influenzali come tosse e febbre. E avanza l'ipotesi che nei paesi asiatici i casi più lievi possano essere sfuggiti alle rilevazioni.
C'è da preoccuparsi?
L'epidemia, è vero, sta spostandosi da est a ovest con alcuni focolai segnalati anche a nord. Nelle aree colpite gli imam stanno collaborando per fornire nelle moschee le informazioni necessarie alla popolazione: nelle aree più povere infatti i polli sono i possedimenti di maggior valore e i contadini sono restii a segnalare un focolaio nel timore di perdere tutti i loro beni. Ciò nonostante, sia l'Organizzazione mondiale della sanità, sia l'Unione Europea confermano che non è necessario variare il livello di allarme.
Secondo Osterhaus, «benché gli allevamenti industriali comportino un minore contatto fra bestie e uomo, i focolai in allevamenti intensivi possono creare le condizioni ideali per le scorribande del virus». L'epidemia olandese ha insegnato che appena si identifica un focolaio sono necessarie immediate misure di controllo e quarantena. Ma al momento i focolai sono diffusi in Turchia, Russia, Croazia, il rischio di infezione è quindi reale. Però mentre è difficile seguire l'infezione nei pollai di tutte le case di contadini, è assai più facile seguirne l'andamento nei grandi allevamenti zootecnici.
(Notizia aggiornata all'11 gennaio 2006)