Mentre noi ci godevamo l'estate, molti australiani erano a letto con la febbre. Tra poco toccherà a noi e, se è vero che spesso la stagione influenzale australiana dà un'idea di cosa aspettarsi sopra l'equatore, non ce la passeremo troppo bene. L'influenza ha colpito in Australia con due mesi di anticipo rispetto alle previsioni e, fino ad ora, sono stati oltre 272.000 i casi di influenza confermati, più del doppio rispetto allo stesso periodo dello scorso anno; 662 invece le morti causate dal virus (secondo il rapporto n. 10 dell'Australian Government Department of Health), 83 in meno rispetto al 2017, anno in cui l'epidemia era stata molto forte.


Gli USA si preparano al peggio. Oltreoceano sale la preoccupazione: gli statunitensi ricordano l'epidemia influenzale del 2017-2018, che uccise quasi ottantamila persone, e che era stata prevista (ma in parte sottovalutata) guardando proprio all'Australia.
Ora gli esperti suggeriscono un elevato livello di attenzione: «La mossa più giusta da fare è vaccinarsi appena possibile», afferma Daniel B. Jernigan, direttore della divisione influenza dei Centers for Disease Control and Prevention (USA). Al momento in cui scriviamo i CDC hanno reso disponibili 116 milioni di dosi di vaccino, suggerendo di vaccinarsi entro la fine di ottobre.
La differenza è enorme, ma non è corretto fare un confronto tra il numero di decessi in Australia e quelle negli USA, perché gli australiani contano solo i decessi direttamente attribuibili all'influenza. Oltre a sottolineare che gli Stati Uniti hanno una popolazione 13 volte maggiore dell'Australia (con tutto ciò che ne segue in fatto di diffusione del contagio), il CDC fa rilevare che molti dei decessi registrati sono dovuti indirettamente all'influenza, come nel caso di pazienti affetti da gravi patologie che, già indeboliti, muoiono però a causa del virus influenzale.
L'importanza del vaccino. La stagione influenzale appena finita in Australia è stata dominata dal ceppo H3N2, lo stesso del 2017 (che è prevalso, insieme all'AH1N1, anche in Italia lo scorso inverno). Si tratta di un sottotipo del virus A, conosciuto dal 1968 come influenza di Hong Kong, che tende a causare più morti e ricoveri rispetto ad altri ceppi. Quest'anno potrebbe ripresentarsi negli USA (e forse anche in Europa) lo stesso sottotipo, anche se è ancora troppo presto per affermarlo con sicurezza.




Ciò che gli esperti lamentano è che sono sempre troppo poche le persone che si vaccinano: negli USA, ogni anno solo il 45% degli adulti e il 63% dei bambini (in Italia, l'anno scorso si è vaccinato contro il virus influenzale solo il 15,3% degli adulti e il 53,1% degli over 65).
Stando a quanto affermano i CDC, il vaccino del 2017 era efficace solo per il 40%, e solo per il 25% contro il ceppo H3N2. «Sappiamo che non è perfetto», afferma William Schaffner, direttore sanitario della National Foundation for Infectious Diseases, «ma è importante avere una protezione, seppure parziale. Se un paziente si vaccina e contrae l'influenza, avrà comunque meno possibilità di ammalarsi di polmonite, di dover essere ricoverato o anche di morire». Insomma, che sia dall'altra parte del mondo o nel cortile di casa la parola d'ordine rimane sempre una: vaccinarsi.