Per la prima volta è stato possibile registrare in diretta che cosa succede nel cervello quando una persona prova dolore cronico, un tipo di dolore che persiste per almeno tre mesi a prescindere dai trattamenti medici e farmacologici affrontati per contrastarlo. I risultati di un piccolo studio scientifico pubblicato su Nature Neuroscience potrebbero contribuire a studiare future terapie per alleviare questa condizione, ancora poco compresa e difficile da curare.
Malessere senza fine. Il dolore cronico può essere considerato una malattia che riguarda oltre il 30% della popolazione mondiale e che abbraccia non solo sensazioni di dolore fisico, ma anche la sfera emotiva e la memoria. Le sue cause possono essere molteplici, dall'artrite al cancro, dal diabete all'endometriosi e fino a traumi neurologici. Il punto è, che trattare il dolore cronico come una forma protratta di dolore acuto spesso non sortisce alcun effetto, e il nuovo studio fornisce alcuni indizi sul perché.
Press record. Prasad Shirvalkar, neurologo dell'Università della California, San Francisco, ha impiantato chirurgicamente alcuni elettrodi nel cervello di quattro pazienti affetti da dolore cronico, come conseguenza di ictus o di una amputazione (dolore da arto fantasma). I dispositivi molto simili a pacemaker hanno permesso di registrare l'attività elettrica di due regioni cerebrali, la corteccia anteriore cingolata e la corteccia orbitofrontale, ogni volta che il paziente premeva un pulsante su un telecomando.
Una misura più affidabile. Per un periodo compreso tra i tre e i sei mesi successivi, i volontari hanno dovuto completare un questionario sull'intensità del dolore provato più volte al giorno, e in seguito premere il pulsante per consentire all'impianto di registrare l'attività elettrica nelle due regioni cerebrali per 30 secondi.
Gli scienziati hanno quindi usato un sistema di machine learning per collegare i segnali elettrici registrati alla gravità del dolore percepito dai pazienti: questa operazione ha permesso di capire che cosa accadeva nelle due aree in questione quando il paziente provava un dolore intenso o al contrario lieve. In altre parole, per la prima volta si è potuto avere traccia della attività elettrica del cervello e usarla come parametro per valutare il disagio del paziente, anziché affidarsi soltanto all'autovalutazione.
Una svolta importante. Così come è stato pensato, l'esperimento ha permesso di seguire il paziente nella vita reale e in tutte le attività quotidiane. I precedenti studi sulle neuroscienze del dolore prevedevano invece di chiamare i volontari in laboratorio per sottoporli a esami di imaging cerebrale in un contesto molto diverso da quello dell'esistenza di tutti i giorni.
Un'area in particolare. Gli scienziati avevano ipotizzato che le due aree cerebrali in cui sono stati sistemati gli elettrodi fossero più probabilmente coinvolte nella percezione del dolore cronico rispetto ad altre regioni del cervello, che si attivano in risposta agli stimoli dolorosi immediati e risolvibili. Ma lo studio ha stabilito che è soprattutto l'attività nella corteccia orbitofrontale ad essere associata al dolore cronico. Questa parte di corteccia cerebrale è coinvolta nella regolazione delle emozioni, nelle operazioni di autovalutazione e nei processi decisionali.
Tutta un'altra cosa. In una seconda parte dello studio, in cui i volontari sono stati momentaneamente "torturati" con stimoli dolorosi acuti prodotti con un oggetto caldo a contatto con la pelle, si è visto che l'attività cerebrale associata a questo tipo di dolore "temporaneo" era completamente diversa e più a carico della corteccia anteriore cingolata. «Il dolore cronico non è semplicemente una versione prolungata del dolore acuto, ma una cosa fondamentalmente diversa nel cervello», precisa Shirvalkar. Questo spiegherebbe perché i comuni antidolorifici siano spesso poco efficaci nel trattare chi lo prova.
Ricadute pratiche. La scoperta potrebbe aiutare a studiare terapie farmacologiche più efficaci per la regolazione del dolore cronico, ma anche avere un impatto più immediato nei test clinici della stimolazione cerebrale profonda per il controllo del dolore protratto. Questa procedura, invasiva e usata come trattamento di ultima risorsa, si avvale proprio di elettrodi impiantati chirurgicamente per somministrare impulsi elettrici al cervello e regolarne l'attività anomala: al momento è impiegata soprattutto in alcuni casi di malattia di Parkinson o di depressione maggiore, ma affinché sia efficace è necessario capire esattamente con quali segnali interferire.