Settembre 2014 - Un vaccino contro Ebola è pronto per essere sperimentato sugli esseri umani. Mentre aumentano le preoccupazioni per la velocità con cui l’epidemia si sta espandendo in Africa, l’Oms ha consentito di accelerare le procedure per i test su alcuni potenziali trattamenti, tra cui un vaccino sviluppato per una parte importante proprio in Italia, e che ha dimostrato di fornire una protezione duratura contro il virus nelle scimmie su cui è stato sperimentato. Ecco di che cosa si tratta.
Come è fatto. Il potenziale vaccino anti-Ebola utilizza un adenovirus (virus che comunemente provoca il raffreddore) degli scimpanzè, modificato con materiale genetico del virus Ebola, in particolare una proteina di superficie. In questo modo il virus, introdotto con un’iniezione nell’organismo, dovrebbe stimolare la risposta immunitaria (gli anticorpi riconoscono la proteina di Ebola) senza causare l’infezione.
È stato scelto come vettore un adenovirus delle scimmie perché, in ricerche precedenti, gli adenovirus umani si sono dimostrati poco efficaci nel produrre l’immunità, probabilmente perché vengono riconosciuti dal nostro sistema immunitario ed eliminati. Allo studio ci sono due varianti del vaccino, una monovalente, contenente il materiale genetico del ceppo di Ebola chiamato Sudan, coinvolto in precedenti epidemie, l’altra bivalente, contenente geni sia di Ebola Sudan sia di Ebola Zaire, il virus coinvolto nell’attuale epidemia.
I primi risultati. Nelle scimmie, il vaccino sembra dare una protezione contro il virus che dura almeno dieci mesi. Uno studio pubblicato su Nature Medicine, guidato da ricercatori dei National Institutes of Health americani, ha descritto i risultati della sperimentazione: i macachi che hanno ricevuto una prima vaccinazione e poi un richiamo (con un vettore leggermente diverso) sono stati protetti da Ebola per dieci mesi. Una sola dose sembra comunque in grado di fornire una protezione sufficiente per alcune settimane.
La sperimentazione sull'uomo. Bypassando le procedure di solito osservate in questi casi, l’Oms ha dato il via alle sperimentazioni sull’uomo del vaccino. Sia negli Stati Uniti sia in Inghilterra si stanno reclutando i volontari per le prime fasi della sperimentazione, per testare la sicurezza e gli effetti sul sistema immunitario del vaccino. Anche in Mali dovrebbe avere inizio questa settimana una piccola sperimentazione. Se i test iniziali sulla sicurezza saranno incoraggianti, secondo il piano dell’Oms il vaccino sarà offerto alla popolazione, a partire dagli operatori sanitari e dal personale impegnato in prima linea contro Ebola. Tutto ciò potrebbe avvenire entro novembre.
Chi lo produce. Dietro lo sviluppo del vaccino contro Ebola c’è anche una piccola impresa biotecnologica italiana, la Okairos, con sede a Basilea e laboratori a Pomezia, acquisita l’anno scorso dalla multinazionale GlaxoSmithKline.
Sono proprio i laboratori italiani che dovranno produrre le circa 10mila dosi di vaccino necessarie per le prime fasi della sperimentazione.
Altri trattamenti. Tra le possibili altre terapie contro Ebola, oltre al siero Zmapp di cui si parla da tempo, c’è la trasfusione di sangue o plasma di pazienti sopravvissuti alla malattia, che in teoria dovrebbe fornire una qualche immunità, anche se non si sa quanto funzioni realmente. Sono già state usate, apparentemente con qualche successo, nell’epidemia del 1995 nella Repubblica Democratica del Congo (allora Zaire). E sembra che anche il missionario americano Kent Brantly abbia ricevuto trasfusioni di sangue di un paziente che aveva trattato, prima di essere rimpatriato negli Stati Uniti (dove è stato poi dichiarato guarito, qui l'articolo di Focus).
Quanto è mortale Ebola? Sono notizie che accendono un minimo di speranza, tenuto conto che la situazione appare sempre più grave. Non solo l’epidemia si diffonde a un ritmo esponenziale (qui come vengono fatte le previsioni), e in paesi come la Liberia sembra del tutto fuori controllo, ma secondo alcune stime riportate su Science il tasso di mortalità potrebbe essere più alto di quello che si pensava. In epidemie del passato è arrivato al 90 per cento, mentre in quella attuale si parla di circa il 50 per cento. Questa stima più bassa potrebbe però dipendere da come vengono contati i morti. Di solito la mortalità viene calcolata dividendo il numero delle persone morte per il numero di quelle infette ma quando, come in questo caso, l’epidemia cresce molto velocemente, con questo metodo i morti vengono sottostimati (perché molti pazienti infettati di recente e contati come vivi non sopravvivono). Alle statistiche sfuggono anche i pazienti malati, contati come casi confermati, che lasciano l’ospedale e di cui non si conosce la sorte.
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