Il morbo di Alzheimer può passare da una persona all’altra? È un’ipotesi sconcertante che però ha trovato in apparenza un qualche fondamento di cui dà notizia uno studio appena pubblicato su Nature.
C’è da dire innanzitutto che non si sta parlando di trasmissione attraverso il contatto diretto tra persone, come un’influenza, ma di possibile trasmissione attraverso rare procedure mediche, ma anche così l’ipotesi apre prospettive impensate.
Ipotesi di partenza. Come si è arrivati ad azzardare questo scenario? La storia della possibilità di un Alzheimer trasmissibile si intreccia a quella di un’altra terribile malattia, il morbo di Creutzfeldt-Jacob, una malattia degenerativa molto rara (colpisce circa una persona su un milione), di cui è diventata famosa la cosiddetta nuova variante, ovvero il morbo della mucca pazza. Questa patologia porta progressivamente alla demenza, ed è causata da modificazioni nel cervello dovute ai prioni, proteine “infettive” che, in modo ancora non ben chiaro, inducono cambiamenti di forma anche nelle proteine normali e portano alla morte dei neuroni.
Un indizio dai prioni. Si pensa che ci siano forme ereditarie della malattia, forme sporadiche senza nessun caso precedente in famiglia, ma una delle cause accertate di trasmissione del morbo attraverso la proteina prionica difettosa è stata l’utilizzo in passato di ormone della crescita “contaminato”.
Ad oggi, oltre duecento persone in tutto il mondo si sono ammalate del morbo come conseguenza delle cure da bambini con ormone della crescita che, fino al 1985, veniva estratto dall’ipofisi di cadaveri. Alcuni lotti, come è stato poi scoperto, erano probabilmente contaminati dai prioni all’origine del morbo di Creutzfeldt-Jacob e decenni dopo, dato che il periodo di incubazione della malattia è molto lungo, hanno cominciato a emergere i casi tra coloro che avevano subito nell’infanzia le cure con l’ormone. Altri casi (pochi) si suppone siano stati provocati da contaminazioni avvenute durante procedure neurochirurgiche e trapianti di cornea.
Proteine infettive. Studiando il cervello di alcuni di questi pazienti morti per il morbo di Creutzfeldt-Jacob, un gruppo di ricercatori dello University College London ha fatto l’osservazione che ha portato all’ipotesi sull’Alzheimer. In pratica, facendo l’autopsia a otto di queste persone, decedute per la malattia da prioni a un'età tra i 36 e i 51 anni e trattate nell'infanzia con l’ormone della crescita, i ricercatori hanno osservato nel cervello di sei di loro, oltre ai cambiamenti tipici del morbo di Creutzfeldt-Jacob, anche i segni caratteristici del morbo di Alzheimer, con l’accumulo tra i neuroni delle placche di proteina beta-amiloide.
Questi depositi di placche, che sono state osservate anche in persone sane e possono precedere anche di anni lo sviluppo della demenza, sono però molto rari tra le persone più giovani.
Non solo: i ricercatori hanno controllato che questi malati non avessero fattori di rischio per il morbo di Alzheimer, o le mutazioni genetiche che ricorrono nelle forme giovanili della malattia. Niente di questo è emerso.
Qual è allora la spiegazione che si sono dati? Suppongono che possa essere avvenuta una trasmissione di proteine beta-amiloidi “mutate” dello stesso tipo di quella che ha causato la malattia da prioni.
Alcune altre ricerche nei topi hanno evidenziato che la proteina beta-amiloide può comportarsi proprio come i prioni, “infettando” le proteine normali e inducendole a cambiare forma, la caratteristica che porta al loro accumulo e ai cambiamenti strutturali nel tessuto cerebrale che sfociano nei sintomi della demenza.
Spiegazioni alternative. Rimane anche la possibilità, che non può essere esclusa, che sia il morbo di Creutzfeldt-Jacob stesso, di cui i pazienti sono morti, a far precipitare una malattia degenerativa come l’Alzheimer, o che le somiglia. Ma di sicuro da tempo gli scienziati vanno osservando analogie significative tra il morbo di Alzheimer e le malattie degenerative da prioni, e questo studio è un indizio in più che porta in quella direzione.
Cautela. C’è anche da dire, a scanso di equivoci, che la trasmissione del morbo sarebbe avvenuta in questo caso in un contesto molto specifico e particolare, e per ora, come sottolinea un commento di accompagnamento all’articolo, non c’è alcuna evidenza che questa trasmissione sia possibile in circostanze normali.