Io mangio, io digerisco, io assimilo, io metabolizzo. Ma anche io sono depresso, io sono ansioso e via elencando. “Io” è il pronome personale preferito dell’Homo sapiens. Ma in questi ultimi due anni il significato di “io” sembra essere cambiato. Il corpo umano è costituito di circa 10 trilioni (10 mila miliardi) di cellule, ma i microbi che ospitiamo sono 100 trilioni. A ogni cellula “umana” del corpo corrispondono quindi 10 microbi ospitati dentro e sopra di noi: batteri, funghi, virus ecc., oggi collettivamente chiamati “microbiota” umano. Tra questi i più importanti sono quelli che "abitano" nell'intestino, chiamati microbiota intestinale.
Umano? Va peggio se pensiamo al genoma. Ogni cellula del corpo umano contiene sempre gli stessi geni, circa 30 mila. Ma il microbioma, cioè il genoma di tutti i microbi che ospitiamo, ne ha 100 volte di più: i ricercatori dell’Embl di Heidelberg, in Germania, e del progetto europeo MetaHIT li hanno contati costruendo il primo catalogo di questi nostri colonizzatori: circa 3,3 milioni di geni. Bonnie Bassler, biologa molecolare della Princeton University, riassume così questi numeri: «Secondo la metrica che preferisci, nella migliore delle ipotesi sei umano al 10%, ma molto probabilmente solo all’1%. Tu ti pensi come un essere umano, ma io ti penso come al 90% o al 99% batterico».
Come interagisce questa folla con le cellule del corpo? Che istruzioni contengono i geni di tutti questi microrganismi? Si credeva che la relazione fra noi e loro fosse commensale (dal latino cum+mensa), che cioè si accomodassero a tavola con noi e mangiassero i nostri scarti; e credevamo di non ricavarne né vantaggi né danni. Ma anche questa convinzione è andata gambe all’aria: il microbiota non vive a scrocco, e anzi svolge compiti cruciali per lo sviluppo dell’organismo e per la sua salute.
Sconosciuti. Ecco perché lo studio del microbiota è oggi essenziale. «Dobbiamo capire chi sono questi batteri, quali sono i benefici e quali i danni di cui sono responsabili, per esempio obesità e malattie, e quali fattori, come la dieta, possono influenzarli» dice Peer Bork dell’Embl, che ha guidato la mappatura.
«Oggi prendiamo gli antibiotici, cioè uccidiamo tutto, ma spesso questo è un intervento insensato. Dobbiamo capire come curare le infezioni e le malattie in modo più intelligente. In futuro, forse, un esame delle feci misurerà la salute e ci cureremo con i microbi».
Per capire chi ci abita, Bork ha usato la “metagenomica”: ha cioè campionato pelle, saliva, feci ecc., l’intero ambiente da studiare e ha sequenziato tutto il materiale genetico che conteneva con la sola esclusione del Dna umano. Ha poi cercato una per una nelle banche dati le varie sequenze: in alcuni casi erano note, come quelle dell’Escherichia coli. Ma spesso erano sequenze ignote: nel solo intestino, hanno calcolato i ricercatori, ci sono circa 10 mila specie microbiche di cui non si sa nulla.
Non che si sappia molto anche dei batteri noti. Pensavamo che fossero sordi e muti... Ci sbagliavamo: si tratta di una comunità di chiacchieroni poliglotti.
Linguaggi chimici. Bassler ha scoperto, per esempio, che i batteri “parlano” fra loro con almeno 2 lingue chimiche, un esperanto comune a tutti i batteri, detto AI 2, e una lingua caratteristica di ogni specie, AI 1. La quantità di “lingua chimica” presente nell’ambiente consente a ogni specie batterica di contarsi, di sapere quanti sono gli altri, e di coordinare il loro comportamento.
I microbi insomma sono tutt’altro che asociali: lavorano in gruppo e cooperano al benessere comune. Vediamo come. Dal punto di vista batterico l’intestino umano non è il domicilio ideale: il pH è basso (cioè l’ambiente è acido), c’è poco ossigeno e ancor meno luce. Per sopravvivere i batteri hanno dovuto adottare stratagemmi. Il patrimonio genetico di solo alcuni individui consente loro di produrre composti necessari alla sopravvivenza di tutta la comunità. E questo potrebbe spiegare un’altra scoperta. I microbiomi presenti negli esseri umani sono molto più simili tra loro di quanto ci si aspettasse: tutti sembrano condividere un set di geni probabilmente necessari a svolgere funzioni cruciali.
Analizzando infatti i geni contenuti nelle feci prima di tre dozzine di individui di provenienze diverse (europei, giapponesi, statunitensi), poi su diverse centinaia di campioni, Bork ha scoperto che in tutto il mondo i cocktail di microbi intestinali possibili sembrano essere solo 3, che ha chiamato “enterotipi”. Non sembrano collegati né al genere dell’individuo, né alla sua nazionalità. I ricercatori pensano a questi enterotipi come a ecosistemi: come ci sono gli ecosistemi della foresta, della tundra o della savana, così ci sono 3 ecosistemi nell’intestino umano, separati dalla prevalenza di alcuni ceppi batterici o di altri.