Roma, 17 set. (AdnKronos Salute) - Quattordici anni fa, un'importante azienda farmaceutica pubblicò uno studio che dimostrava come l'antidepressivo Paxil* (paroxetina) fosse sicuro ed efficace anche per gli adolescenti. Ora, un'importante rivista medica pubblica una nuova analisi degli stessi dati, concludendo che sarebbe vero il contrario. A riportare la vicenda è il 'New York Times', che cita il lavoro apparso sul 'British Medical Journal', esempio di un trend in crescita, quello della re-interpretazione di vecchi esperimenti da parte di team di ricercatori, per scoprire eventuali problemi.
La squadra internazionale di studiosi guidata da Jon Jureidini dell'Università di Adelaide ha rianalizzato i dati con il permesso della società, la GlaxoSmithKline (al tempo delle indagini di partenza era SmithKline Beecham), che dunque rivendica "un livello senza precedenti di condivisione dei dati, che evidenzia l'impegno assoluto alla trasparenza". Gli esperti hanno trascorso circa un anno esaminando attentamente i file sullo studio originale. Avviato alla fine degli anni '90, fu ribattezzato 'Study 329', e apparve nel 2001 sul 'Journal of the American Academy of Child and Adolescent Psychiatry'. Jureidini e colleghi hanno mostrato che non ci sarebbero vantaggi associati all'uso di paroxetina nei giovani e, anzi, ci sarebbe il rischio di preoccupanti eventi avversi come il suicidio.
"Anche se erano già state sollevate preoccupazioni sullo studio, i dati non erano stati precedentemente messi a disposizione, in modo che si potessero identificare errori nel rapporto pubblicato", dice Jureidini. "Undici pazienti trattati con paroxetina nella ricerca - rileva - hanno avuto comportamenti suicidari o auto-lesivi, rispetto a una sola persona nella gruppo placebo. Il nostro studio ha anche rivelato che il farmaco non è più efficace per alleviare i sintomi della depressione rispetto al placebo".
"Questo è molto preoccupante perché la prescrizione di questo farmaco potrebbe aver esposto giovani pazienti a un rischio non necessario, rappresentato da un trattamento che avrebbe dovuto invece aiutarli. Questa rianalisi dello 'Study 329 dimostra la necessità di mettere a disposizione i dati degli studi primari per aumentare il rigore della ricerca basata sull'evidenza", conclude l'esperto.