Ormai lo sappiamo. Quando il 21 febbraio fu identificato il Paziente 1 nell'Ospedale di Codogno, l'epidemia di CoViD-19 era già diffusa. Ma quanto lo fosse, e da quanto tempo, è ancora una questione dibattuta. Ora, uno studio effettuato sui donatori di sangue del Policlinico di Milano tra il 24 febbraio e l'8 aprile, getta nuova luce su quella fase inziale che è stata ignorata dai conteggi ufficiali: è stato osservato che, nell'ultima settimana di febbraio, il 4,6% dei donatori - cioè 1 su 20 - aveva già sviluppato anticorpi contro il nuovo coronavirus, il SARS-CoV-2, segno che la malattia già circolava da tempo, visto che la risposta immunitaria non è immediata. A inizio aprile, il dato era salito al 7,1%, spostandosi verso fasce di età più elevate. Che cosa vogliono dire questi dati? Lo vediamo subito.
Casi insospettabili. Lo studio - condotto da Daniele Prati e Luca Valenti, del Policlinico, in collaborazione con l'Ospedale Luigi Sacco, l'Istituto Europeo di Oncologia e l'Università degli Studi di Milano - riguarda 800 donatori, che sono un campione significativo - seppure non direttamente rappresentativo dell'insieme della popolazione della città, perché «si tratta di soggetti sani e sensibilizzati ai temi di salute pubblica, di età compresa tra 18 e 65 anni», spiega Daniele Prati, ideatore della ricerca, direttore del Dipartimento di Medicina Trasfusionale ed Ematologia del Policlinico. Dunque, queste persone erano asintomatiche, anzi, del tutto insospettabili. Ma gli asintomatici, purtroppo, possono essere molto infettivi.
A caccia di anticorpi. A ciascuno dei donatori è stato fatto, insieme alle analisi di routine, un test sierologico sensibile agli anticorpi che il sistema immunitario produce contro il SARS-CoV-2. E sono stati tracciati due tipi di anticorpi: le immunoglobuline IgM (indizio di un'infezione recente), e le IgG (segno di memoria immunitaria a lungo termine). Per velocizzarne la diffusione, lo studio è stato pubblicato su MedRxiv senza peer review, cioè senza essere stato ancora controllato dalla comunità scientifica. I risultati, dunque, si devono considerare preliminari.
Prima i giovani, poi gli anziani. Nelle sue linee essenziali, il quadro che emerge è che il virus è presumibilmente arrivato in Italia tra fine dicembre e inizio gennaio. Ha cominciato a diffondersi sottotraccia a partire dalla seconda metà di gennaio, inizialmente soprattutto tra i giovani. Quando è stato identificato il Paziente 1, in Lombardia giravano già migliaia di persone contagiate, che però erano in gran parte asintomatici o presentavano sintomi lievi.
Poi il virus ha raggiunto le fasce più deboli della popolazione, e le cose sono andate come purtroppo sappiamo. Nel frattempo, le misure di igiene e di distanziamento sociale hanno avuto il loro effetto: hanno bloccato la diffusione, soprattutto tra i giovani. E le tracce si vedono anche nel sangue dei donatori.