Spaventosa e mortale nella realtà, ma anche diversa da come viene di solito immaginata e descritta. Perfino per i medici Ebola rimane una malattia in gran parte sconosciuta, se si considera che pochissimi specialisti al mondo hanno avuto a che fare con un caso "dal vivo", e che la documentazione si basa soprattutto sulle epidemie passate, con poche decine di pazienti, e un numero esiguo di casi studiato a fondo.
Un gruppo di operatori in Sierra Leone ha raccolto dati clinici e di laboratorio su un centinaio di pazienti, e lo studio, pubblicato sul New England Journal of Medicine, fornisce una delle descrizioni ad oggi più complete sul quadro clinico e l’andamento della malattia.
Poco sangue. La prima cosa che colpisce è che il decorso di Ebola sembra divergere parecchio da quanto descritto nel racconto di Area di Contagio, il libro di Richard Preston su cui è basato anche il film Virus letale. Sia il film sia il libro descrivono con particolari truculenti pazienti impazziti e deliranti, sangue che fluisce da ogni orifizio, organi trasformati in gelatina.
Se è vero che i casi peggiori di Ebola possono dar luogo a emorragie importanti (e comunque la malattia fa parte del gruppo delle febbri emorragiche), specialmente verso le fasi finali della malattia, i sanguinamenti non sono certo comuni. Gli autori dello studio riportano di averli osservati in un solo paziente.
I sintomi. Più probabile che i difetti nella coagulazione del sangue provocati dal virus si manifestino sotto forma di petecchie o ematomi. Febbre, mal di testa e debolezza sono stati i sintomi iniziali più comuni, seguiti nell’evolvere della malattia da grave diarrea e vomito.
Bere per vivere. Il racconto di una dottoressa nigeriana, contagiata e sopravvissuta durante il focolaio epidemico in Nigeria, concorda con questa descrizione, anche se a colpire di più sono le circostanze e l’ambiente in cui è stata curata: praticamente quasi abbandonata a se stessa.
La dottoressa ritiene di essersi salvata per la sua ostinazione nel continuare a ingurgitare liquidi per evitare la disidratazione provocata dal vomito e dalla diarrea.
Anche secondo gli autori dello studio è probabile che uno dei fattori principali che porta alla morte sia il danno all’organismo causato dalla fortissima perdita di liquidi, più che quello al fegato provocato dal virus. E la disponibilità di terapie avanzate di supporto, insieme alla precocità delle cure, potrebbe essere uno dei motivi per cui, anche dai pochi dati disponibili, negli ospedali dei paesi occidentali sembra sia più facile uscirne vivi.
Reazioni diverse. Dall’analisi dei dati è confermato che il periodo di incubazione della malattia va dai sei ai dodici giorni, e che dai sintomi alla morte ne passano in media dieci.
Chi sopravvive, in genere inizia a migliorare dal sesto giorno dall’inizio della febbre e gli esami di laboratorio di fegato e reni, gravemente alterati, tornano di solito normali nel giro di poco. Lo studio conferma anche quello che pare evidente dai casi seguiti dalla cronaca: ci sono grosse differenze individuali nel modo in cui l’organismo reagisce al virus. E anche grosse differenze nella quantità di virus presente nel corpo dei pazienti. Chi al momento della diagnosi aveva una carica virale di meno di 100mila copie del virus per millilitro di sangue ha avuto chance assai migliori di sopravvivenza rispetto a chi ne aveva oltre dieci milioni (in cui è stata osservata una mortalità del 94 per cento).
Sopravvissuti. Il periodo di recupero può essere più o meno lungo. Le immagini di questi giorni dell’infermiera Nina Pham, guarita mentre abbraccia il suo cane e apparentemente in forma meno di tre settimane dopo la diagnosi di Ebola (il 12 ottobre) contrastano con il racconto di altri sopravvissuti. Un’infermiera contagiata e sopravvissuta durante un focolaio epidemico in Uganda nel 2102 parla per esempio di quattro mesi di dura convalescenza (qui il suo racconto alla giornalista canadese Julia Belluz). Molti pazienti guariti accusano problemi alla vista, dolori alle articolazioni e una grande stanchezza, che rende problematico tornare alla vita di prima, specialmente per le persone che svolgevano lavori pesanti.
In Africa, le chance di sopravvivenza sono state migliori per i più giovani, sotto i 21 anni, che hanno avuto una mortalità nettamente inferiore (57 per cento contro 94 per cento) rispetto alle persone con più di 45 anni.