Salute

Ebola, guarire o no dipende dai geni

Un gruppo di ricercatori è riuscito a riprodurre la malattia nei topi, cosa che finora non era stata possibile. Servirà a velocizzare gli studi sul virus e su eventuali terapie. Una prima ipotesi, intanto, è che a influenzare l'esito dell'infezione siano fattori genetici più o meno "favorevoli".

Scienziati americani sono riusciti a riprodurre nei topi la malattia di Ebola con gli stessi sintomi e andamento clinico che ha negli esseri umani: alcuni si ammalano gravemente e muoiono, altri hanno forme tutto sommato moderate della malattia.

Dalle prime osservazioni, a influenzare la sorte di chi si ammala potrebbero essere almeno in parte fattori genetici.

Ci manca un modello. Finora la ricerca sulla malattia e su possibili terapie è andata a rilento per vari motivi. Uno di questi è che non esisteva un "modello", come si dice in gergo, di Ebola nei topi, gli animali che più frequentemente vengono usati nella ricerca e nelle sperimentazioni biomediche. I normali topi di laboratorio a cui in passato gli scienziati avevano provato a inoculare il virus della febbre emorragica morivano, ma senza presentare le caratteristiche cliniche che la malattia produce nell’uomo, prima di tutto i difetti nella coagulazione del sangue e le emorragie.

Mortale ma non sempre. Le ricerche sul virus e sull’efficacia di eventuali terapie sono state finora condotte principalmente su macachi, il cui uso è ovviamente più problematico sia per ragioni etiche sia pratiche (costi), o su cavie e criceti, ma non sui topi, classico animale da laboratorio.

Ricercatori del Katze Laboratory della University of Washington e di altre istituzioni hanno infettato topi ottenuti da particolari incroci tra animali da laboratorio e ceppi selvatici (su cui inizialmente stavano testando le diverse reazioni al virus dell’influenza) con il virus coinvolto nell’epidemia attuale di Ebola (Ebola Zaire, il più letale).

I topi hanno presentato le stesse caratteristiche e la stessa diversità al virus osservata negli esseri umani. Il settanta per cento degli animali si è ammalato in forma grave e ha avuto i sintomi caratteristici della malattia, difetti della coagulazione del sangue, infiammazione del fegato e anomalie della milza. L’undici per cento si è dimostrato parzialmente resistente, con una mortalità inferiore, e il diciannove per cento, a parte un dimagrimento poco dopo l’infezione, non ha mostrato altri sintomi o segni di anomalie al fegato. Questi animali sono sopravvissuti e in un paio di settimane sono tornati al peso normale.

Geni fortunati. I medici stanno osservando questa varietà di reazioni al virus anche nei pazienti proprio nel corso di questa epidemia: alcuni si ammalano in forma gravissima e non sopravvivono neppure con le terapie di supporto, altri sembrano avere sintomi assai più moderati. Da ricerche svolte in occasione di precedenti epidemie di Ebola, la causa non sembra da attribuire a particolari cambiamenti del virus che lo renderebbero più o meno aggressivo.



L’ipotesi degli autori dello studio, pubblicato questa settimana su Science, è che questa diversità di reazioni sia da attribuire in larga parte a differenti caratteristiche genetiche che renderebbero l’organismo più o meno capace di combattere l’infezione. In particolare, sarebbe un gene che regola la coagulazione del sangue e che può avere particolari conformazioni più o meno favorevoli a influenzare la gravità della malattia.

Lavori in corso sul vaccino. Con l’utilizzo di topi che si ammalano di Ebola, i ricercatori sperano di aprire la strada a test più veloci di eventuali terapie e vaccini. Oggi, infatti, le opzioni per combattere il virus sono di fatto inesistenti e non esistono terapie che abbiano dimostrato di servire a qualcosa. La speranza maggiore è riposta nel vaccino sviluppato dalla GlaxoSmithKline, entrato nella fase sperimentale nelle settimane scorse, con una grossa accelerazione rispetto alle procedure normali.

Finora il potenziale vaccino è stato somministrato ad alcune decine di volontari sani negli Stati Uniti, in Inghilterra e in Mali, con lo scopo di verificare che non produca effetti collaterali importanti. Entro la fine dell’anno, se supera questi primi test, verrà testata la sua efficacia nel prevenire la malattia, probabilmente somministrandolo a operatori sanitari nei paesi dove è in corso l’epidemia. Nei laboratori italiani della Okairos, la company biotech che ha sviluppato il vaccino (acquisita dalla Glaxo), è in corso la produzione di alcune migliaia di dosi che serviranno per la sperimentazione. In ogni caso, e anche se tutto procedesse secondo le aspettative, il vaccino non potrebbe essere pronto per l’uso sul campo prima della fine del 2015. Il che significa che non è un’opzione a disposizione per tentare di arginare l’epidemia ora in corso.

30 ottobre 2014 Chiara Palmerini
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