Salute

La domesticazione animale ha aumentato il nostro rischio di infezioni

Con la domesticazione e l'inizio dell'allevamento, l'incidenza di malattie trasmesse dagli animali all'uomo è cresciuta, e ora ne abbiamo le prove.

La probabilità per l'uomo di contrarre malattie zoonotiche è aumentata di molto con l'avvento della domesticazione animale. Il fatto è di per sé piuttosto intuitivo, ma per la prima volta è stato possibile provarlo in maniera diretta: uno studio sui resti di 1.300 persone vissute da pochi secoli a diverse migliaia di anni fa conferma che l'allevamento animale ha facilitato i salti di specie dei virus responsabili di zoonosi, le malattie che passano dagli animali all'uomo. La ricerca in attesa di pubblicazione su una rivista scientifica in peer-review è per ora disponibile su bioRxiv.

Revisione dei dati. Come scrivono gli autori dello studio, che è stato coordinato da Eske Willerslev, genetista dell'Università di Copenhagen, «l'allevamento animale ha avuto un impatto profondo sulla salute umana globale e sulla storia nei millenni, e continua ad averlo ancora oggi».

Il team ha sfruttato il fatto che il sequenziamento del genoma di persone vissute in antichità, insieme a quello dei virus a DNA o dei batteri che li infestavano, stanno diventando sempre più comuni, per analizzare i dati grezzi sul sequenziamento del DNA di più di 1.300 persone considerate in precedenti studi, 130 dei quali non ancora pubblicati. La maggior parte di questi individui è vissuta tra alcune migliaia e alcune centinaia di anni fa, ma i più antichi resti analizzati risalgono a 37.000 anni fa.

Una vecchia conoscenza. Dopo aver escluso dal "conteggio" il DNA dei patogeni che naturalmente popolano il suolo in cui le ossa si trovavano sepolte e di quelli che in vita colonizzano la bocca, gli scienziati sono riusciti a individuare nei dati le tracce del corredo genetico di molti batteri e virus presenti nel sangue degli individui studiati prima della loro morte, e forse anche responsabili del loro decesso.

Il batterio della peste (Yersinia pestis), che infetta i roditori e può essere trasmesso alle persone dalle pulci, è stato trovato nel 3% dei resti (cioè in 39 persone). La maggior parte dei casi di peste trovati si è verificata tra i 6.000 e i 3.000 anni fa; attorno a 2.000 anni fa i ricercatori hanno riscontrato una "pausa", quindi una nuova ondata durata alcuni secoli, poi di nuovo una pausa e quindi un'altra ondata corrispondente alla "Morte Nera", la peste del Medioevo. Le pause individuate dagli scienziati rispecchierebbero i periodi di minore incidenza dei casi della peste, che inizialmente non era molto trasmissibile e si estingueva rapidamente.

Ospiti sgraditi. Uno dei batteri responsabile della borrelliosi (il Borrelia recurrentis), una malattia infettiva trasmessa da cervi, roditori e uccelli all'uomo attraverso insetti vettori, è stato trovato in 31 persone, il 2,3% del totale: anche se oggi questa infezione è molto rara in passato doveva essere piuttosto diffusa.

Il primo caso riconosciuto dai ricercatori riguarda un individuo vissuto in Scandinavia 4.500 anni fa. Nel campionario dei malanni divenuti più frequenti con la domesticazione animale sono poi apparsi anche malaria, epatite, lebbra, leptospirosi (un'altra infezione batterica).

Un cambiamento epocale. Il team ha suddiviso i patogeni trovati in cinque gruppi, incluso quello responsabile di zoonosi. Dei cinque tipi di virus e batteri, soltanto quelli all'origine di zoonosi sono aumentati nei resti umani a partire da 6.000 anni fa, una prova del fatto che «il rischio e la diffusione di patogeni a trasmissione zoonotica sono probabilmente aumentati con l'adozione di pratiche di allevamento e pastorizia più diffuse», scrivono gli autori.

Interpretare con cautela. Un possibile limite dello studio è che le tradizionali tecniche di sequenziamento genetico si "perdono" i virus a RNA come quello dell'influenza e i coronavirus, che in passato potrebbero aver causato epidemie diffuse.

5 novembre 2023 Elisabetta Intini
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