Avete presente il tipico disinfettante a base di alcol, in uso negli ospedali (e in molti locali pubblici) di tutto il mondo? Sembra che un batterio che si trova comunemente nelle feci dell'uomo, l'Enterococcus faecium, stia diventando sempre più resistente a questo tipo di disinfettante, provocando così un aumento di alcune comuni infezioni ospedaliere (per esempio quelle a carico dell'apparato urinario).
Lo sostiene uno studio condotto su campioni di batteri raccolti tra il 1997 e il 2015 in due ospedali di Melbourne, in Australia. Secondo i ricercatori, infatti, i campioni batterici raccolti dopo il 2010 hanno mostrato una tolleranza al tipo di alcol che è alla base del disinfettante 10 volte maggiore rispetto ai campioni più vecchi. E analizzandone il DNA, hanno scoperto che i batteri più resistenti presentavano diverse mutazioni nei geni coinvolti nel loro metabolismo.
Addio disinfettante? Calma! Ma non è ancora suonata l'ora per i disinfettanti ospedalieri: «Innanzitutto», spiega Tim Stinear, del Dipartimento di Microbiologia e Immunologia dell'Università di Melbourne, uno degli autori dello studio, «dobbiamo verificare se gli stessi modelli di tolleranza all'alcol siano presenti anche in popolazioni di Enterococcus faecium resistenti ai farmaci di altri ospedali del mondo». Inoltre non vi è ancora alcuna certezza su cosa, in questi batteri, provochi una maggiore resistenza all'alcol. La crescente diffusione dei disinfettanti negli ospedali potrebbe giocare un ruolo. Ma è possibile che anche altri fattori possano essere coinvolti, anche indirettamente. Per esempio la capacità da parte dei batteri di adattarsi per sopravvivere nell'intestino degli esseri umani.
A queste considerazioni ne va aggiunta un'altra, importantissima: «L'impiego sistematico dei disinfettanti alcolici per le mani ha consentito di ottenere grandi risultati, in particolare nel controllo dello Staphylococcus aureus resistente alla meticilina, e di altri tipi di infezioni ospedaliere», sostiene Paul Johnson, docente di malattie infettive all'università di Victoria (Australia) e co-autore dello studio, «e per questo siamo fortemente convinti che sarebbe meglio continuare a usarli».