Un gruppo di ricercatori della Washington University di Saint Louis ha annunciato di essere riuscito a mettere a punto un test per individuare con un semplice esame del sangue la proteina beta-amiloide, ritenuta il segno distintivo della malattia.
L’esame, descritto in uno studio pubblicato sulla rivista Neurology, sarebbe assai più sensibile dei mezzi oggi a disposizione, e permetterebbe di stabilire una diagnosi abbastanza sicura anche anni o decenni prima che la malattia si manifesti.
A scanso di semplificazioni e di equivoci, la notizia va però inquadrata nel contesto della ricerca e delle conoscenze attuali sul morbo di Alzheimer.
Come funziona. Il test, che utilizza una tecnica tipica della chimica, la spettroscopia di massa, riesce a misurare la presenza nel sangue della proteina beta-amiloide. Le famigerate “placche” che secondo l’ipotesi sostenuta da decenni, accumulandosi nel cervello, causerebbero i sintomi della demenza, sono infatti costituite proprio da questa proteina.
Per questo test, in particolare, è stato preso in considerazione il rapporto di due forme della beta amiloide, chiamate 40 e 42, che si modificano in un modo caratteristico via via che gli accumuli di proteina nel cervello aumentano.
Lo studio ha coinvolto 158 persone oltre i 50 anni di età, tutte normali dal punto di vista cognitivo all’inizio dello studio, che nel corso del tempo si sono sottoposte ad esami come la scansione del cervello con la PET, il mezzo di indagine oggi spesso utilizzato per diagnosticare la malattia, e a test di memoria e ragionamento. Ricercando e misurando la proteina beta amiloide nei campioni di sangue raccolti nel corso dello studio, i ricercatori hanno verificato che, anni prima che le placche apparissero alla PET, il test era in grado di individuare chi avrebbe sviluppato le placche.
In particolare, combinando i dati del test sul sangue con altri fattori di rischio per l’Alzheimer, come l’età, la presenza di geni noti per predisporre alla malattia (in particolare la variante Apo-E4), i ricercatori hanno ottenuto un’accuratezza piuttosto elevata nel predire la malattia, sicuramente superiore a quella che i medici riescono a ottenere oggi.
I dubbi. Questo test, come i molti altri tentativi in corso di individuare e diagnosticare in modo precoce la malattia, prima che si manifestino i sintomi, lascia però aperte molte domande. La prima riguarda le “fondamenta” su cui poggia questo strumento, vale a dire la teoria che la proteina beta amiloide sia collegata in modo specifico al morbo di Alzheimer. Ritenuta un’ipotesi forte per molti anni, negli ultimi tempi si è indebolita, con il fallimento dei molti studi clinici di farmaci che miravano a trattare il morbo di Alzheimer proprio eliminando le placche di beta amiloide.
Se questi farmaci non hanno funzionato nel ridurre i sintomi della demenza (pur eliminando dal cervello le placche) - sono in molti ora a dire – significa che la beta amiloide non è la causa dell’Alzheimer. Del resto, si dà ormai per acquisito che gli accumuli di beta amiloide possano essere presenti anche nel cervello di persone sane, e viceversa che alcuni malati non le abbiano. Dunque, il ruolo della proteina beta amiloide nella genesi della malattia, ammesso che esista, è sicuramente più complesso di quanto ipotizzato inizialmente.
Sapere in anticipo. Altra questione aperta è l’utilità di questi test, e di tutta la linea di ricerca che punta alla "diagnosi precoce", da un punto di vista pratico e anche etico. A che cosa serve diagnosticare con anni di anticipo una malattia per cui allo stato attuale non c’è cura?
Anche gli autori dello studio sul nuovo test, comunque, ipotizzano un ruolo assai ristretto per questo test, non certo – almeno al momento – per indagini di massa su potenziali malati ancora perfettamente in salute. La sua utilità principale, anche se passerà ancora del tempo prima che venga messa a punto una versione utilizzabile per scopi clinici, sarà per reclutare pazienti per le sperimentazioni di farmaci.
Uno strumento per gli studi clinici. Secondo una buona fetta di studiosi, l’insuccesso dei molti studi è dovuto al fatto che finora le molecole sperimentali sono state utilizzate su persone in cui la malattia era già in fase piuttosto avanzata, o si erano manifestati almeno i primi sintomi, cioè “troppo” tardi per una malattia che probabilmente impiega decenni per manifestarsi. Uno dei tentativi ancora in corso è di provare a utilizzare gli stessi farmaci ma ancora prima, in persone in cui il meccanismo della malattia è già innescato, ma che non possono ancora essere definiti “malati”. I potenziali candidati per i trial clinici di questo tipo vengono individuati soprattutto grazie alla PET, che però è un esame complesso e costoso.
Se si potesse utilizzare un esame del sangue, assai più economico, le ricerche sarebbero più spedite, e sarebbe anche più a portata di mano la possibilità di confermare o confutare rapidamente ipotesi di ricerca e di cura.