La "nave del tempo", che traghetterà migliaia di corpi congelati in un futuro dove (forse) ci saranno le tecnologie per risvegliarli, è un edificio che somiglia a una sorta di disco volante: sorgerà a Comfort, Texas, una cittadina nei pressi di San Antonio.
I lavori per la costruzione di Timeship sono appena iniziati: sarà un centro dedicato alla crionica, disciplina che studia come conservare al freddo organi e tessuti del corpo ma che, come scopo ultimo, si propone di "criopreservare" persone intere nella speranza, un giorno, di scongelarle e riportarle in vita. Nelle intenzioni ci sarà posto per 50mila cadaveri, anche se nell'ambiente si preferisce parlare di corpi “deanimati”, in teoria sospesi tra la vita e la morte.
Progetti a confronto. Timeship è il progetto più faraonico, ma non è l’unico. Alcune decine di persone sono già nei congelatori in altri centri, fondati a partire dagli anni Settanta negli Usa e in Russia. Alla Alcor Life Extension di Scottsdale, Arizona, sono 146, mentre ad avere firmato un contratto per ricevere il servizio al momento del decesso sono un migliaio, tra loro anche tre italiani: maschi, età media 50 anni, come ci risponde cortesemente la segretaria.
Riserbo assoluto. Nelle celle frigorifere del Cryonics Institute di Clinton Township, Michigan, che vanta "i prezzi più economici", ne giacciono un centinaio, ma il direttore rifiuta di fornire altri dettagli sui "soci". Mentre alla Kriorus di Sergiev Posad, città a nord di Mosca, secondo le informazioni sul sito web, sono ospitate 51 persone e 19 animali. Il servizio costa assai – anche oltre 200mila euro – ma come soluzione più a buon mercato c’è il pacchetto "neuro", cioè la conservazione della sola testa, con il cervello, invece di tutto il corpo, nella speranza che la mente possa tornare al mondo in un corpo artificiale. O digitale, chi lo sa.
Concreti. I membri iscritti al programma ricevono istruzioni dettagliate per il momento della loro dipartita. Se la fine è prevista perché è in corso una malattia grave, un team dei centri si reca sul posto per sorvegliare che le procedure siano eseguite correttamente.
Una volta che la persona è dichiarata clinicamente e legalmente morta, inizia il processo per la crioconservazione: il corpo viene raffreddato con ghiaccio, si ristabilisce la circolazione sanguigna, e si somministrano farmaci per rallentare il deterioramento dei tessuti, poi il sangue viene drenato e rimpiazzato con soluzioni crioprotettive, in sostanza antigelo simili a quelli usati nei motori, e infine il corpo congelato a –196 °C e conservato in cilindri pieni di azoto liquido.
Oltre a dettagli macabri, questo mondo è pieno anche di storie commoventi, come quella di Kim Suozzi, morta a 23 anni per un tumore al cervello, di cui il New York Times ha seguito gli ultimi mesi di vita e la scelta di farsi crioconservare.
E dopo? I suoi sostenitori definiscono la crionica "scienza", ma in realtà tra i ricercatori nessuno la considera tale, principalmente per l’assenza di indicazioni o almeno ipotesi plausibili su come potrebbero in futuro essere rianimati i corpi. «Certo, da un punto di vista puramente logico ci sono forse più probabilità di essere risvegliati da un congelatore che da un’urna di ceneri», commenta con ironia Matteo Cerri, che all’Università di Bologna fa ricerca sull’ibernazione (niente a che fare con la crioconservazione, si studia come usare il freddo per scopi legati alla salute).
Poltiglia. Altro motivo di scetticismo è che i tessuti subiscono danni irreversibili. In pratica, l’acqua nelle cellule, ghiacciandosi, aumenta di volume e le fa "scoppiare". A –196 °C, il punto di ebollizione dell’azoto liquido, i danni sono quasi certi. Per questo la Alcor sta sviluppando un’alternativa (vedi illustrazione) in cui, mantenendo i corpi a "soli" 140 °C sotto zero, si verificherebbero guasti minori.
Antigelo. Il problema potrebbe però essere superato anche in un altro modo. «Quando all’acqua vengono aggiunte sostanze chimiche, il punto di congelamento si abbassa», spiega via mail Gregory Fahy, responsabile della ricerca alla 21st Century Medicine, azienda specializzata in conservazione di cellule, tessuti e organi. «Ho pensato di portare questo concetto alle sue estreme conseguenze: se quasi tutta l’acqua viene sostituita, un tessuto non congelerà anche se viene raffreddato fin quasi allo zero assoluto».
L’acqua e le sostanze chimiche in essa mischiate vanno invece incontro alla cosiddetta vetrificazione: il liquido diventa solido senza formare cristalli di ghiaccio. Alcuni animali, insetti e alcune specie di rane e pesci, vanno naturalmente incontro a vetrificazione, sopravvivendo a temperature di decine di gradi sotto zero.
E il procedimento artificiale funziona già bene per ovociti, spermatozoi, embrioni, congelati per le tecniche di fecondazione assistita. Il problema è renderlo possibile per organi interi, e trovare sostanze chimiche che consentano la vetrificazione senza essere tossiche esse stesse e danneggiare i tessuti. Ora la soluzione pare più vicina.
Organi più longevi. Nel 2000 Fahy ha vetrificato un rene di coniglio, che ha poi funzionato normalmente dopo essere stato trapiantato, e l’anno scorso ha utilizzato nuovi composti che sembrano migliorare ulteriormente il processo.
«Nel 2017 pensiamo di passare alla sperimentazione con reni di maiale», ci dice. Altri centri di ricerca stanno sperimentando con vari mix di sostanze e particolari tecniche di scongelamento.
Se queste tecnologie funzioneranno, si aprono prospettive inedite per i trapianti di organi, ora legati ai tempi di conservazione di ciascuno (non più di 4 ore per il cuore, per esempio). L’idea è creare "biobanche" di organi congelati e pronti nel momento in cui ce ne sia bisogno.
Rallentare il tempo. Questi progressi rendono in teoria più verosimile la prospettiva di poter congelare tessuti, organi e magari interi corpi senza che subiscano danni irreparabili. Ma il freddo, non così estremo, viene già utilizzato in altri settori della medicina che hanno a che fare con il confine tra la vita e la morte.
All’ospedale universitario di Pittsburgh è in corso uno studio sulla possibilità di indurre il cosiddetto stato di "animazione sospesa", in cui la temperatura corporea è di soli 10 °C e il cuore non batte più, iniettando soluzioni fredde nel corpo dei pazienti che arrivano al pronto soccorso in fin di vita per ferite gravissime.
I medici sperano così di guadagnare tempo per operarli, aumentando le probabilità che sopravvivano senza danni permanenti: quando la temperatura del corpo si abbassa, infatti, il metabolismo rallenta e il bisogno di ossigeno dei tessuti diminuisce. Lo dimostrò il caso di Anna Bågenholm, medico svedese, che nel 1999, dopo una caduta sugli sci, rimase per un’ora e mezza con la testa sotto il ghiaccio: quando fu recuperata la sua temperatura era di 13,5 °C.
in letargo. Raffreddare dall’esterno il corpo, in fondo, è un modo per indurre uno stato simile a quello degli animali che ibernano. «Oggi si cerca di capire come le cellule riescano ad adattarsi a questa condizione, e come poterla ricreare artificialmente», spiega Cerri, che è anche consulente dell’Agenzia spaziale europea, interessata a sfruttare i vantaggi del freddo per mandare gli astronauti in lunghi viaggi interplanetari.
Studiare la fisiologia dell’ibernazione potrebbe avere ricadute interessanti per molti settori. Si sa per esempio che negli animali in letargo i tumori smettono di crescere. Negli orsi i reni cessano di funzionare (senza danni); il loro cuore batte invece normalmente. In noi basta un abbassamento della temperatura sotto i 30 °C per provocare aritmie. Al risveglio gli animali non hanno debolezza muscolare, mentre a noi bastano pochi giorni a letto per renderci difficile camminare.
E ancora: i neuroni delle creature che ibernano esprimono la proteina tau iperfosforilata, la stessa di cui sono piene le cellule cerebrali dei malati di Alzheimer, e i cui livelli tornano normali a fine letargo.
Un modo per difendere la cellula in condizioni di rischio energetico?
meccanismo evolutivo. «L’ipotesi prevalente è che l’ibernazione sia controllata dal cervello, il quale comanda una riduzione della spesa energetica poi potenziata dal raffreddamento. Si pensa che sia un meccanismo evolutivo antico, il cui interruttore si è spento in molti mammiferi, tra cui noi, ma che si potrebbe forse far scattare di nuovo», spiega Cerri.
Il problema è come. Il gruppo di ricerca bolognese c’è riuscito con un ratto, ibernato e risvegliato dopo sei ore in perfetta salute. Sulle persone per ora si cerca di sfruttare gli effetti terapeutici delle basse temperature, raffreddando dall’esterno i pazienti colpiti da arresto cardiaco o i neonati in terapia intensiva, per ridurre i danni cerebrali.
Prevenire le reazioni. In alcuni centri si sta sperimentando lo stesso trattamento nel caso dell’ictus. «Il problema è che l’organismo resiste riscaldandosi, e questo provoca altro dispendio energetico, e altri possibili danni. Bisognerebbe riuscire a raffreddare in modo veloce, evitando la risposta di compensazione del corpo».
L’esperimento di Pittsburgh, che porta in pochi istanti la temperatura del corpo fino a 10 °C, inducendo uno stato di morte apparente, mira proprio a questo, e presto si saprà se può funzionare. Chissà invece quanto dovrà aspettare per tornare in vita chi è già nei congelatori e quanti decideranno di imbarcarsi sulla Timeship.
Tratto da un articolo di Chiara Palmerini per Focus 288. Le foto sono di Alberto Giuliani (sito; Instagram; Facebook).