Molte volte in questi due anni di pandemia abbiamo sentito di pazienti con forme serie di covid trattati anche con antibiotici: ma questo gruppo di farmaci non è riservato alle infezioni batteriche? Perché usarli contro la malattia da SARS-CoV-2? La questione è al centro di un articolo su The Conversation.
Antibiotici, batteri e virus. Come sappiamo, usare antibiotici contro influenza e raffreddore è del tutto inutile perché il loro impiego è da riservarsi alle infezioni batteriche, e utilizzati a sproposito vanno ad alimentare la selezione di super batteri farmaco-resistenti.
Eppure, soprattutto nei contesti ospedalieri, alcune classi di antibiotici sono sfruttate per alleviare i sintomi della covid, che è un'infezione virale. Uno studio della Beni-Suef University, in Egitto, ha per esempio concluso che l'impiego di ceftazidima o di cefepime, due antibiotici della famiglia dei beta-lattamici, nei pazienti con covid moderata o grave porta a risultati simili rispetto a un trattamento "standard" autorizzato dall'OMS che include sette diversi tipi di farmaci. Il ricorso all'uno o all'altro antibiotico è insomma una cura più semplice, sia per il paziente sia per il sistema sanitario.
Nuovi utilizzi per vecchi farmaci. La ricerca di un antivirale efficace contro la covid prosegue senza sosta (e con alcuni risultati promettenti), ma per un farmaco su misura contro il nuovo coronavirus servirà tempo, e i milioni di malati in condizioni critiche non possono aspettare. Ecco perché in questa pandemia, così come si era già fatto per altre emergenze sanitarie da virus come Ebola, Zika o MERS, si è fatto ampio ricorso a farmaci già esistenti e la cui tollerabilità e sicurezza fossero già state assodate.
È il cosiddetto drug repurposing, ossia il "riposizionamento" di medicinali nati per scopi diversi ma che riescono a inibire la moltiplicazione virale, a migliorare lo stato di salute dei pazienti o a rafforzare il loro sistema immunitario.
Logorio ai fianchi. Alcuni virus, benché molto diversi dai batteri, sono in effetti sensibili all'azione degli antibiotici. Durante l'epidemia di Zika si era per esempio scoperto che l'azitromicina, un antibiotico usato per il trattamento di infezioni respiratorie, presa in gravidanza inibiva la replicazione del virus nel cervello dei feti, e poteva proteggere dalla microcefalia (una ridotta crescita del cervello) nel caso la madre fosse stata infettata. Un altro antibiotico, la novobiocina, sembra avere una decisa azione antivirale sia contro il virus Zika sia contro quello della dengue.
Questi risultati fanno pensare che alcuni antibiotici possano in effetti ostacolare efficacemente anche l'azione del SARS-CoV-2, e che l'assunto "antibiotici solo per batteri" possa consentire alcune eccezioni.
Utili per le infezioni secondarie. La ceftazidima e il cefepime riuscirebbero a distruggere la proteasi del coronavirus, un enzima fondamentale per la riproduzione del patogeno. Lo suggeriscono le simulazioni computerizzate che di solito anticipano gli studi in vitro veri e propri. Entrambi inoltre fanno parte degli antibiotici ad ampio spettro di attività usati per debellare le infezioni che colpiscono i pazienti già fortemente debilitati ricoverati in ospedale.
Siccome anche i malati con covid finiscono spesso per contrarre co-infezioni, questi farmaci potrebbero migliorare le loro condizioni: in effetti, non è chiaro se i risultati riportati dallo studio egiziano dipendano dall'azione degli antibiotici sulle infezioni concomitanti o dall'inibizione del coronavirus vero e proprio, che evita per esempio la polmonite.
meglio prevenire. Mentre attendiamo cure antivirali efficaci, ricordiamo che il migliore strumento disponibile per scongiurare forme gravi di covid è il vaccino. Non possiamo riporre aspettative e fiducia in farmaci nati per usi diversi, sia perché nessuno è, al momento, salvavita, sia perché il massiccio utilizzo di antibiotici per i casi gravi di covid ha già dato una decisa accelerazione al fenomeno dell'antibiotico-resistenza, una minaccia grave per la salute pubblica.