Mentre i numeri dei positivi alla covid crescono, continua la ricerca per comprendere a pieno il funzionamento della nuova variante Omicron: recenti studi (tutti ancora non sottoposti a peer-review, ovvero non rivisti da altri scienziati) giungono alla conclusione che Omicron sembra infettare più facilmente la gola, e con meno probabilità i polmoni rispetto alle precedenti varianti di SARS-CoV-2. Questo ne spiegherebbe sia la maggiore contagiosità, sia la minore gravità – quest'ultima caratteristica già evidenziata in uno studio sudafricano di fine dicembre che rilevava una diminuzione dell'80% nel numero di ricoveri per Omicron rispetto a varianti precedenti.
Più in alto. «Le diverse mutazioni presenti in Omicron potrebbero averne alterato la capacità di infettare le cellule», spiega al Guardian Deenan Pillay, professore di virologia alla UCL. La nuova variante sembra attaccare di più il tratto respiratorio superiore, colpendo le cellule della gola. Quando un virus si replica nella gola è più trasmissibile, mentre se è capace di infettare il tessuto polmonare (com'era il caso del ceppo originale di SARS-CoV-2 e le sue varianti) è potenzialmente più pericoloso ma meno trasmissibile.
Meno grave. Uno studio del Molecular Virology Research Group dell'Università di Liverpool ha rilevato che i topi infettati da Omicron perdevano meno peso, avevano una carica virale più bassa e contraevano una polmonite meno grave rispetto a quelli infettati con Delta: un'altra ricerca condotta su criceti siriani è giunta a conclusioni simili, mentre uno studio del Centre for Virus Research dell'Università di Glasgow ha rilevato che Omicron ha cambiato il modo in cui entra nel nostro organismo, eludendo la protezione data da due dosi di vaccino (che però sembra essere, almeno in parte, ristabilita dalla dose di rinforzo).
Proteggersi. «I risultati di questi studi sono rassicuranti, ma non devono in alcun modo farci abbassare la guardia», avverte James Stewart (Università di Liverpool). Il virus è ancora molto pericoloso per i soggetti più vulnerabili – come immunodepressi e anziani – e ancor di più per chi non è vaccinato: se è vero infatti che il vaccino non impedisce di contrarre la malattia, riduce però drasticamente il rischio di svilupparla in forma grave o letale.