Salute

COVID-19: perché così pochi casi in Russia e Africa?

Trasporti, controlli, clima, mancanza di trasparenza: tutte le possibili ragioni dell'apparente bassa diffusione della COVID-19 in Russia e in altri Paesi.

Come mai diversi Paesi che hanno intense relazioni commerciali o turistiche con la Cina riportano ancora pochissimi casi di COVID-19? Perché in Africa la diffusione del nuovo coronavirus sembra essere per il momento limitata? E quanto è attendibile il dato di soli 63 casi in Russia al 17 marzo? La domanda e le possibili risposte sono al centro di un articolo pubblicato su The Conversation.

I conti non tornano. Anche in caso di pandemia, è normale che alcune aree geografiche siano raggiunte più lentamente dall'onda dei contagi. Tuttavia, la Russia non è meno legata alla Cina di altri Paesi (come Giappone, Corea del Sud e Stati Uniti) che sono ora alle prese con elevati livelli di trasmissione comunitaria del nuovo coronavirus. Un altro dato significativo è che nei 15 Paesi che confinano via terra o via mare con la Cina, sono stati riportati in totale soltanto 310 casi: solo l'India ne ha dichiarati più di 100, e dieci Paesi ne registrano meno di 5.

Inoltre, mentre gli epidemiologi di tutto il mondo temono la diffusione della COVID-19 in Africa, i 54 Paesi africani riferiscono appena 253 casi degli oltre 167 mila mondiali (dati aggiornati al 17 marzo). Perché questi numeri così contenuti?

Silenzi irresponsabili. La prima ragione che viene in mente - e anche la più pericolosa - è la mancanza di test ai casi sospetti, o la scarsa trasparenza nel riferirli. In molti Paesi sono sottoposti a tampone solo i cittadini con una storia di viaggio nelle aree più colpite, o quelli che accusano sintomi già gravi. Ciò determina una sottostima dei casi di contagio destinata a prolungare i tempi di lotta alla pandemia, come ha di recente ricordato l'OMS.

In alcuni Paesi mancano le risorse per affrontare campagne di test su larga scala; altri temono le ripercussioni economiche associate alla denuncia dei casi (come la contrazione del turismo) o non vogliono attirare l'attenzione del mondo su sistemi sanitari impreparati all'urto della COVID-19. Questa opacità rischia di creare degli hotspot in cui il nuovo coronavirus continuerà a proliferare anche quando saremo usciti dalla fase più critica.

Scambi ridotti. Alcuni dei Paesi con meno contagi hanno effettivamente scambi molto ridotti con la Cina, amplificati dalle restrizioni introdotte dal Paese con lo scoppio dell'epidemia, che potrebbero aver ritardato la diffusione della COVID-19. Se questo fosse vero, i contagi in questi luoghi aumenteranno purtroppo nelle prossime settimane, visti gli elevati contatti con l'Europa, nuovo epicentro dell'epidemia.

 

C'è poi il caso di Paesi come il Giappone o Singapore, che mantengono un intenso scambio di merci e persone con la Cina e nei quali però la COVID-19 sembra procedere più lentamente. Controlli più stringenti alle frontiere nelle prime fasi dell'emergenza potrebbero aver tenuto a bada la trasmissione locale (senza contare il fattore Olimpiadi, che potrebbe riportarci al paragrafo precedente). Se l'ipotesi di una sorveglianza più attiva si rivelasse fondata, questi Paesi dovrebbero registrare un andamento più lento nella crescita dei contagi.

Il fattore geografico. La maggior parte dei casi si registra oggi sopra il Tropico del Cancro. A sud di esso si riportano, mentre scriviamo, solo 2.025 casi di COVID-19. Nei Paesi tropicali o dell'emisfero australe sono concentrati solo l'1,29% dei casi globali. Questo dato potrebbe essere un riflesso di più scarsi legami con la Cina, o piuttosto del tipo di clima preferito dal coronavirus SARS-CoV-2; ma è anche possibile che le altre infezioni diffuse in queste aree geografiche mascherino le infezioni da COVID-19, scambiate per altre malattie.

Se la causa fossero i limitati contatti con la Cina (discorso che non tiene, per l'Africa), allora anche in queste zone i casi dovrebbero aumentare nelle prossime due settimane, portati dall'Europa. Se dipende dal clima, dovremmo vedere un cambiamento della situazione con l'estate (nostra) e l'inverno australe; se infine c'entrano le altre infezioni (o i farmaci già presi per arginarle: come gli antimalarici, sperimentati anche contro la COVID-19) il numero di nuovi casi dovrebbe rimanere contenuto.

19 marzo 2020 Elisabetta Intini
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