Il più ampio studio clinico sui potenziali farmaci per l'infezione da COVID-19 è partito nel Regno Unito, e primi risultati sono attesi già nel mese di giugno. La sperimentazione si chiama RECOVERY (Randomised Evaluation of COVID-19 Therapy, ma recovery significa anche guarigione, in inglese) e annovera, come soggetti, oltre 5000 pazienti reclutati in 165 ospedali del Regno Unito: si tratta del più esteso e rigoroso test clinico su quelle terapie già fornite in "uso compassionevole" ai più gravi pazienti COVID negli ospedali di tutto il mondo.
Fare chiarezza. Scopo dello studio è confrontare i diversi trattamenti sperimentali già impiegati contro la COVID-19, per capire quali siano i più efficaci e se si possano ottenere risultati migliori usandoli in combinazione. Molti dei farmaci oggi impiegati per uso compassionevole sono celebrati come panacea contro l'attuale pandemia, senza alcuna evidenza scientifica: in alcuni casi, i pazienti guarirebbero comunque; in altri, il campione di malati è troppo ristretto o mancano i soggetti di controllo - il confronto, cioè, di un medicinale con un placebo.
Il risultato è un'estrema pressione sui medici in prima linea a utilizzare farmaci "che chiaramente funzionano" o a non utilizzarne altri perché di sicuro non hanno effetto. «In entrambi i casi si sbagliano perché nessuno lo sa» spiega Peter Horby, Professore di Malattie infettive emergenti e salute globale all'Università di Oxford che coordina lo studio. Prima dell'emergenza COVID-19, Horby aveva guidato i trial farmacologici contro Ebola in Africa occidentale e nell Repubblica Democratica del Congo.
Meglio insieme? I primi farmaci testati saranno: la combinazione Lopinavir-Ritonavir (usata comunemente contro l'HIV); alcuni corticosteroidi (farmaci tipicamente usati per ridurre le infiammazioni); l'antimalarico idrossiclorochina e l'antibiotico azitromicina. Questi ultimi due medicinali sono solitamente usati in combinazione, ma saranno prima testati separatamente per valutare l'efficacia di ciascuno. Per alcuni pazienti in gravi condizioni potrebbe essere prescritto il tocilizumab, il trattamento contro l'artrite reumatoide già usato in alcuni ospedali italiani. Il team sta valutando se testare il plasma dei guariti come terapia aggiuntiva; per quanto riguarda il promettente antivirale remdesivir, non è per ora stato possibile ottenere scorte a sufficienza, a causa degli studi e delle cure in corso in altre parti del mondo.
Ai pazienti saranno assegnate in modo casuale queste terapie - la cui efficacia non è al momento provata - o un placebo. Ci sono già dai 500 ai 900 soggetti per ogni farmaco e circa 2000 nei gruppi di controllo.
I ricercatori non ripongono grandi aspettative sui singoli medicinali testati, che se saranno d'aiuto daranno comunque benefici contenuti. Piuttosto, sperano che usarli in combinazione possa accelerarne i benefici: una volta capito come funzionano, si potrebbero associare le azioni di antivirali e antinfiammatori per ottenere risposte più adeguate.