Riceviamo e pubblichiamo un articolo di Cristina Casalone, Dirigente Veterinario dell'Istituto Zooprofilattico Sperimentale del Piemonte, Liguria e Valle d'Aosta, e Giovanni Di Guardo, Professore di Patologia Generale e Fisiopatologia Veterinaria all'Università di Teramo, che mette a confronto due epidemie di origine zoonotica: la COVID-19 e l'Encefalopatia spongiforme bovina - il "morbo della mucca pazza", una malattia neurologica cronica causata da un prione (una proteina anomala) tipica dei bovini ma trasmissibile all'uomo attraverso carne contaminata.
L'allarme su una possibile correlazione tra morbo della mucca pazza e malattia di Creutzfeldt-Jakob (una forma grave di demenza con decorso molto rapido) in soggetti giovani arrivò in Gran Bretagna nel 1996. Oggi l'epidemia legata al consumo di carni infette è stata praticamente eradicata.
Proprio in un momento come questo, in cui il mondo intero sta combattendo il virus SARS-CoV-2, responsabile della più grande emergenza sanitaria globale, è quanto mai importante fare memoria delle lezioni apprese nel corso di emergenze sanitarie passate. Una di queste è senz'altro rappresentata dall'encefalopatia spongiforme bovina (BSE), popolarmente nota come "morbo della mucca pazza". CoViD-19 e BSE infatti, pur nelle colossali differenze che caratterizzano le due malattie, la prima causata da un virus a tropismo respiratorio, l'altra di origine alimentare e causata da un prione, un agente "sui generis" di natura proteica, presentano tuttavia una serie di analogie gestionali estremamente interessanti.
Agire per salvare vite. La prima di esse riguarda il principio di precauzione, un "minimo comune denominatore" applicato alla gestione di qualsivoglia emergenza, non meramente sanitaria e dalle conseguenze imprevedibili in quanto se ne hanno conoscenze imprecise e frammentarie se non largamente deficitarie. Ove l'agente di malattia risultasse trasmissibile all'uomo, come nel caso di quello responsabile della BSE, oppure fosse dotato di una contagiosità quanto mai elevata a fronte della mancata disponibilità di farmaci e/o di vaccini specifici, come nel caso del coronavirus che provoca la CoViD-19, ecco che al principio di precauzione viene ad affiancarsi il concetto di worst case scenario. Tradotto in italiano, il peggiore scenario che si possa immaginare, sulla cui scia verranno predisposte e adottate tutta una serie di misure finalizzate a ridurre al minimo l'esposizione umana.
Nella gestione sanitaria e nella conseguente massima mitigazione del rischio di trasmissione della BSE all'uomo tali misure hanno comportato l'esclusione, dal consumo alimentare, di numerose matrici biologiche a livello delle quali è stata documentata la presenza d'infettività. Analogamente, nel caso della drammatica "emergenza da coronavirus" sono state adottate una serie di misure draconiane che, a partire dalla città di Wuhan e dalla provincia cinese di Hubei (epicentro della pandemia da SARS-CoV-2), sono state successivamente applicate in maniera progressiva da vari Paesi, primo fra tutti l'Italia, il cui esempio è stato seguito a ruota da molti altri Paesi europei ed extra-europei.
Una lacuna da colmare. Il principale gap relativo all'adozione del principio di precauzione è rappresentato dalla mancanza di conoscenze adeguate sul "nemico" che ci si trova a combattere, un agente patogeno di dimensioni submicroscopiche e come tale percepito come una minaccia ancor più incombente sulle nostre vite. La comunità scientifica non soltanto è chiamata a dare un nome e un cognome a questo nemico, ma anche ad individuare i tessuti e le cellule in grado di consentirne la replicazione, unitamente ai meccanismi e alle risposte attuate dall'organismo per limitarne la diffusione.
Queste fondamentali quanto imprescindibili conoscenze potranno esser desunte dalle indagini "post mortem", come hanno chiaramente documentato anche i numerosi studi finora condotti sulle specie naturalmente (bovino, gatto, uomo, etc.) o sperimentalmente infettate con l'agente della BSE. Non vi è dubbio alcuno, in proposito, che le attuali conoscenze sulla patogenesi dell'infezione da SARS-CoV-2, da ritenersi allo stato attuale oltremodo lacunose e frammentarie, potranno grandemente beneficiare dallo studio dei pazienti deceduti.
Nonostante le numerose interviste concesse dai pur autorevoli colleghi e scienziati quotidianamente intervistati dai media (virologi, infettivologi, epidemiologi, esperti di sanità pubblica ed altre figure che si avvicendano nell'arena mediatica), nell'inquadramento nosologico e nosografico oltre che nella classificazione dell'infezione da SARS-CoV-2 e della malattia da esso sostenuta, la CoViD-19, non si è visto fino a questo momento un solo patologo esprimere la propria opinione nel merito. È infatti grazie alla fondamentale opera svolta dai patologi che potremo ottenere una fotografia della dimensione post-mortem della malattia, con specifico riferimento alla sequenza evolutivo-patogenetica dell'infezione da SARS-CoV-2.
E, come dimostrato per i ceppi responsabili di malattie prioniche "atipiche" con caratteristiche diverse dal ceppo originario, sia nell'uomo che negli animali, potrebbero esistere ceppi del virus SARS-CoV-2 dotati di differenti livelli di patogenicità nei confronti del nostro organismo. Ribadiamo, ancora una volta, la cruciale rilevanza delle indagini post-mortem per chiarire questi fondamentali aspetti attinenti alla biologia dell'agente virale e, nondimeno, alle sue dinamiche d'interazione con l'ospite.
Indagini più capillari. Nel corso dell'epidemia di BSE l'introduzione dei cosiddetti "test rapidi" a scopo diagnostico ha permesso di esaminare tutti i bovini adulti che non presentavano sintomatologia clinica ed eliminarli dal consumo umano riducendo così l'esposizione della popolazione all'agente infettivo. L'attuazione di questa sorveglianza definita attiva, in quanto si cerca attivamente la malattia ha richiesto uno straordinario sforzo tecnico ed organizzativo da parte di tutti coloro che si occupavano del settore. Si trattò, infatti, di allestire nuovi laboratori che permettessero di esaminare dai 1500 ai 2500 campioni al giorno.
Analogamente, nel caso di SARS-CoV-2, recenti indagini condotte sui macachi dimostrano come sia possibile rilevare precocemente la presenza del virus in animali infettati sperimentalmente e asintomatici. Pertanto, in base a quanto sopra descritto si può affermare che l'utilizzo dei test mediante effettuazione di tamponi sulla popolazione adulta permetterebbe di ridurre in maniera considerevole il numero dei contagi applicando conseguentemente le misure di isolamento sui casi risultati positivi.
Realtà interconnesse. Mai come in questo momento si rende evidente il concetto di "One Health", che riconosce quanto la salute dell'uomo sia legata indissolubilmente alla salute degli animali e dell'ambiente. Ne deriva il legame, parimenti indissolubile, attraverso il quale medicina umana, medicina veterinaria e tutela dell'ambiente sono reciprocamente interconnesse, un concetto che i nostri antichi padri traducevano efficacemente con l'espressione "universal medicina". Diviene pertanto cruciale la collaborazione interdisciplinare, nel cui ambito il ruolo degli esperti in grado di modellare l'evoluzione delle epidemie e l'impatto dei cambiamenti climatici sulle caratteristiche eco-epidemiologiche dei relativi agenti causali sta acquisendo un'importanza via via crescente.
Tanto più alla luce di quanto recentemente sottolineato dall'Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), secondo cui il 75% delle malattie infettive emergenti sarebbero sostenute da agenti di dimostrata o sospetta capacità zoonosica (vale a dire in grado di trasmettersi dagli animali all'uomo). A 35 anni di distanza dalla scoperta del primo caso di BSE in Inghilterra, oggi possiamo affermare che la malattia è stata definitivamente sconfitta grazie all'applicazione di misure che, nella loro drammaticità e nella parziale deprivazione di alcune libertà individuali dalle stesse prodotta, hanno grandemente penalizzato dal punto di vista economico alcuni settori più direttamente coinvolti.