Dalla ricerca degli anticorpi in chi si è infettato e ha sconfitto il virus della COVID-19 potrebbe passare una parte della soluzione alla pandemia da COVID-19: molti guardano a questi test sierologici come al mezzo giusto per sapere quanti si sono contagiati e soprattutto quanti potrebbero tornare alla vita normale senza rischiare di ammalarsi.
In Veneto per esempio si vogliono fare i test rapidi per dare una sorta di "patentino di immunità" e individuare chi potrebbe essere in prima linea per la ripartenza. A prima vista sembrerebbe una soluzione semplice e a portata di mano. Ma diversi esperti sottolineano che se la valutazione fosse sbagliata esisterebbe il rischio concreto di mandare in giro persone che potranno ammalarsi eccome. E questo rischio è reale perché - ci arriviamo - i test finora sviluppati devono essere validati, cioè si deve verificare che funzionino e funzionino bene.
Intanto, i possibili test si moltiplicano: il Veneto sta facendo da apripista con un test cinese, il primo con il certificato CE arrivato in Italia e ora in sperimentazione nei laboratori di microbiologia dell'ospedale di Padova (ne sono stati acquistati oltre 700mila e i primi 100mila dovrebbero essere eseguiti sui sanitari nei prossimi giorni), ma altri si stanno mettendo a punto anche negli Stati Uniti e ne esistono ormai circa un centinaio in tutto il mondo, con costi molto variabili, dai cinque euro circa in su, e con risultati disponibili da pochi minuti a qualche ora.
come funzionano i test sierologici per gli anticorpi?
«Sono diversi dal tampone, che individua il materiale virale nelle secrezioni del paziente: per il test sierologico si analizza il sangue (in alcuni casi basta una goccia dal dito, ndr) andando alla ricerca degli anticorpi IgM, che si producono con l'infezione in corso, delle IgG, che compaiono in seguito e hanno generalmente funzione neutralizzante, oppure di entrambi i tipi di anticorpi», spiega Enrico Maggi, responsabile della Struttura di immunologia e terapie cellulari del Policlinico Careggi di Firenze e past-president della Società Italiana di Allergologia, Asma e Immunologia Clinica (SIAAIC).
«In realtà ancora non sappiamo quali siano i test più attendibili da utilizzare per i due tipi di anticorpi, né conosciamo la tempistica di comparsa delle IgM e soprattutto delle IgG dopo l'infezione da SARS-CoV-2: alcuni sostengono che siano sufficienti 4 giorni dopo la positività al tampone, secondo altri fino a due settimane.
Quindi non è ben chiaro quale sia il tipo di test migliore da usare: esistono già molti kit ma nessuno è validato, sono possibili risultati variabili, la sensibilità non è sempre eccellente. Serve tempo per capire l'efficacia di questi test, è troppo presto per esserne certi».
La maggior parte dei test per la ricerca di anticorpi del SARS-CoV-2 devono essere ancora validati. Si deve cioè dimostrare scientificamente se funzionano e se forniscono risposte chiare. Se i test non danno risultati affidabili, non sono utili. E potrebbero anzi essere dannosi.
In linea teorica quali sono i migliori?
«Basandoci su ciò che sappiamo di altri virus, i test per le IgG associati a un tampone negativo dovrebbero essere sufficienti a dare una buona sicurezza di non riammalarsi, almeno nel breve termine», risponde Maggi.
«L'ideale sarebbe avere test per i linfociti CD8, i globuli bianchi della memoria immunitaria: quando ci sono, un eventuale nuovo "incontro" con il virus porta a una risposta immune rapida e molto efficiente, che elimina il virus in breve tempo senza che si sviluppi la malattia. Sono arrivati solo adesso i primi reagenti e kit per identificare i CD8 per SARS-CoV-2, siamo perciò all'inizio di una strada di valutazione dei metodi che sarà necessariamente lunga».
Del resto conosciamo il nuovo coronavirus da appena tre mesi, non sappiamo come si comporta e anche i test sierologici si stanno mettendo a punto 'in corsa': possiamo solo provare ad applicare conoscenze che abbiamo dall'esperienza con altri coronavirus, ma non è detto che siano vere per SARS-CoV-2. «Per esempio, non siamo certi che avere avuto il virus significhi non poterlo prendere ancora e quindi che la presenza di anticorpi garantisca davvero l'immunità», osserva Maggi. «Da quel che sappiamo della risposta immunitaria sembra impossibile che un paziente possa essere di nuovo contagiato dopo aver superato una prima infezione, ma sono stati diffusi rapporti di casi in cui sembra sia accaduto e dobbiamo tenerne conto. Quindi, non possiamo dire con certezza che un test sierologico positivo per gli anticorpi del coronavirus garantisca che la persona è immune né, se lo fosse, per quanto tempo sarà protetta da un nuovo contagio. Dall'avere un test sierologico che dimostra che c'è stato un contatto con il virus a dire che non ci riammaleremo più nella vita, insomma, ce ne corre».
Quale ruolo possono avere questi test, allora?
«Servono per una valutazione epidemiologica, per capire quanti hanno contratto il virus anche se non sono stati sottoposti al tampone e valutare perciò quanto si sia esteso il contagio nella popolazione», risponde l'immunologo.
«Posto che devono essere validati e tenuto presente che sappiamo poco di come si comporta il virus, saranno comunque utili per sapere chi potrà tornare al lavoro con maggiore sicurezza, soprattutto fra i lavoratori più a rischio come gli operatori sanitari, le forze di polizia, gli addetti agli uffici pubblici e così via. Un tampone negativo con anticorpi positivi può ragionevolmente indicare che per un certo lasso di tempo è meno probabile contrarre di nuovo il virus: SARS-CoV-2 fa parte dei virus a RNA, che in genere vanno incontro a mutazioni ma su tempi abbastanza lunghi. Certo, non ne siamo sicuri ma possiamo supporlo, così come è vero che in genere questi agenti infettivi perdono un po' della loro virulenza con il tempo. Per avere certezze però dovremo monitorare l'evoluzione del virus nell'arco di mesi».
Per difendersi dagli agenti nocivi presenti nell'ambiente, il corpo utilizza due tipi di meccanismi. Il primo è costituito da barriere fisiche, come i peli delle narici (che bloccano l'ingresso di particelle di grandi dimensioni) e le cellule che tappezzano le vie respiratorie che, grazie ai loro prolungamenti, respingono le impurità presenti nell'aria che respiriamo.
Il secondo meccanismo, molto più raffinato, è il sistema immunitario: un vero e proprio esercito di cellule (note nel complesso come globuli bianchi) specializzate nell'attaccare e distruggere virus e batteri, e che può anche inattivare le molecole tossiche di certi veleni. Esistono molti tipi di globuli bianchi, ciascuno con un ruolo ben preciso.
Attacco e difesa. Quando siamo sotto attacco, l'esercito si muove seguendo due schemi: la prima linea è costituita dalle cellule dell'immunità innata, ovvero da neutrofili, basofili, eosinofili e macrofagi. Questi ultimi sono piuttosto grossi, e letteralmente divorano i microrganismi patogeni. I primi tre, invece, producono sostanze che danneggiano o distruggono i nemici, e molecole che chiamano all'azione i linfociti: le cellule della seconda linea che costituiscono il ramo più specializzato del nostro esercito. Ne esistono di due tipi: i linfociti B producono anticorpi che si legano agli agenti infettivi e fanno sì che i macrofagi possano riconoscerli e distruggerli con maggior efficacia. I linfociti T, suddivisi in varie sottocategorie, potenziano ulteriormente la risposta immunitaria, per esempio distruggendo le cellule infettate dai virus, al fine di evitarne la replicazione.
Maturazione. Come tutte le cellule del sangue, anche quelle del sistema immunitario sono prodotte dal midollo osseo. I linfociti maturano poi a livello dei linfonodi, strutture di forma ovoidale, grandi da pochi millimetri a 2-3 centimetri, collocate a diversi livelli del sistema linfatico. Anche la milza produce linfociti maturi, mentre il timo, situato davanti alla trachea, è indispensabile per lo sviluppo completo dei linfociti T durante l'infanzia e l'adolescenza.