Salute

Coronavirus - Storie di pazienti zero

Pazienti zero: chi ha inventato questa definizione? Ecco perché non si trova quello dell'epidemia italiana di nuovo coronavirus, e perché forse neppure esiste.

Contagi da nuovo coronavirus: non si trova il bandolo della matassa. Finora (alle 10:00 del 26 febbraio) il famigerato paziente zero, ovvero la persona che avrebbe dato il via all'epidemia di coronavirus in Italia non è stato identificato. La ricostruzione dello scenario più immediata e scontata, che per alcune ore è sembrato reggesse (e cioè che a contagiare paziente 1, primo caso diagnosticato in Italia di COVID-19, fosse stato l'amico manager tornato dalla Cina), si è poi rivelata infondata. E, ad oggi, non è stato individuato alcun collegamento diretto tra i primi due focolai individuati, quello lombardo e quello in Veneto, tanto da indurre a credere che siano indipendenti: ci sarebbero insomma più pazienti zero. Segno che, come diversi esperti sempre più sospettano, forse il virus è in circolazione in Italia da più tempo di quanto si creda, e i casi diagnosticati ora potrebbero essere già la seconda o terza generazione di contagiati.

L'ago nel pagliaio. Anche se le carte in tavola sembrano cambiare di momento in momento, la COVID-19, ossia l'epidemia scatenata dal nuovo coronavirus (il virus che l'OMS ha poi chiamato SARS-CoV-2), non sarebbe certo un'eccezione nel rimanere senza una persona certa da indicare come punto d'inizio del contagio. Anzi, la storia delle epidemie indica che raramente si è riusciti a ricostruire con esattezza la catena dei contagi, e quando ciò è avvenuto, lo si è dovuto più alla fortuna, o alle caratteristiche della malattia, che non all'abilità investigativa.

«Il problema della ricerca del paziente zero in una malattia a trasmissione respiratoria che si manifesta in moltissimi casi con sintomi lievi, è estremamente difficile», spiega a Focus.it Pierluigi Lopalco, professore di igiene e medicina preventiva all'Università di Pisa: «nel corso dell'indagine epidemiologica è difficile rintracciare tutti i possibili contatti sospetti di essere stati l'origine del contagio. Immaginatevi di essere contagiati mentre prendete un caffè al bar, e che il "colpevole" sia l'avventore che ha tossito mentre era appoggiato al bancone, accanto a voi: nessuno riuscirà mai a scoprirlo!»

Come nasce il nome. La definizione stessa di "paziente zero" sarebbe in realtà frutto di un equivoco. Nella terminologia degli epidemiologi, la persona che dà il via alla catena dei contagi viene chiamata caso indice. Benché il concetto di "paziente zero" fosse dunque noto, la definizione pare sia nata all'inizio degli anni Ottanta, agli albori della diffusione dell'Aids.

Quando negli Stati Uniti misero in relazione la sindrome con gli omosessuali, le prime indagini epidemiologiche portarono a risalire a una singola persona, un assistente di volo di nazionalità franco-canadese, che poi sarebbe stato identificato in Gaëtan Dugas.

Un impiegato scambiò la "O" (la lettera con cui il paziente era indicato nella cartella clinica e che stava per Outside California - cioè non californiano, proveniente da fuori dalla California) per uno zero, e da lì nacque la dicitura "paziente zero" con cui il caso indice ha cominciato a essere riportato dai media, e che da lì in poi è rimasta con lo stesso significato. Per la cronaca, Gaëtan Dugas, che è morto nel 1984 ed è stato per anni diffamato con la sua famiglia, non era neppure l'iniziatore dei contagi negli Stati Uniti. Come dimostra uno studio pubblicato su Nature nel 2016, quasi 35 anni dopo i fatti, l'HIV ha in realtà cominciato a circolare negli Stati Uniti a partire almeno dagli anni Settanta, arrivando dall'Africa attraverso in Caraibi.

Piste sbagliate. Anche se Dugas è stato infine scagionato, il termine "paziente zero" continua a creare, oltre a curiosità, anche una certa confusione, e ambiguità, su come le malattie si diffondono. Nel caso dell'epidemia italiana da nuovo coronavirus, per esempio, nei primissimi giorni tutti i tasselli sembravano incastrarsi alla perfezione: il manager tornato dalla Cina, i contatti ripetuti con un 38enne, il fatto che fosse risultato positivo anche un cognato del primo... Invece le analisi successive hanno dimostrato che la ricostruzione non era corretta. Anche l'ipotesi di un legame tra i focolai lombardo e veneto - un agricoltore sessantenne frequentatore dei bar di Vo', paese del focolaio veneto, che si era recato anche a Codogno nei giorni precedenti e si è poi presentato in ospedale con sintomi sospetti - aveva fatto pensare di aver identificato il collegamento. Le analisi hanno poi dimostrato che anche questa pista non è quella giusta.

Dalla Spagnola a oggi. Anche l'origine della Spagnola, l'epidemia influenzale che negli anni intorno al 1918 - complici le dure condizioni causate dalla guerra e l'assenza di antibiotici - si portò via alcuni milioni di persone, non è stata accertata con sicurezza. L'ipotesi più citata vuole che il caso indice sia stato il cuoco di un campo di addestramento militare che si sarebbe ammalato in Kansas, e da lì la malattia si sarebbe diffusa tra i soldati e sui campi di battaglia in Europa.

Ma si pensa anche che ci siano stati altri focolai separati, per esempio in Asia Orientale e in Austria: nessuna delle ipotesi è confermata con certezza, e anche in questo caso non è possibile identificare un paziente zero.

Quando la malattia provoca sintomi gravi e il periodo di incubazione è più breve, di solito è più semplice rintracciare il punto da cui l'epidemia è partita. Per esempio, nel caso dell'epidemia di Ebola scoppiata nel 2013 si sospetta che il primo caso sia stato un bambino di due anni che viveva in un villaggio della Guinea, e che potrebbe aver contratto la malattia da un pipistrello. Il bambino è morto pochi giorni dopo aver manifestato i sintomi, e la stessa sorte è toccata nel giro di un mese alla madre, alla sorellina e alla nonna.

paziente zero, contagi
Il virus ebola al microscopio elettronico. © jaddingt / Shutterstock

Tifo a New York. A volte, raramente, può essere anche una ricostruzione a distanza di anni a far salire all'origine di un'epidemia. È per esempio il caso di un focolaio di febbre tifoide agli inizi del Novecento, a New York. La storia, da noi poco nota, è quella di Mary Mallon, o Typhoid Mary, come è stata poi soprannominata. Mary era una donna di origini irlandesi, emigrata negli Stati Uniti, che a New York iniziò a lavorare come cuoca presso varie famiglie dell'alta società. Cambiava spesso lavoro e a un certo punto ci si rese conto che nelle famiglie presso cui aveva trovato impiego si verificavano piccole epidemie, con anche alcuni morti, di febbre tifoide. Alla fine fu chiarito che Mallon era una portatrice sana: maneggiando il cibo in cucina, complice la scarsa igiene e alcune circostanze fortuite (per esempio il fatto che una delle sue specialità fosse un dessert che non richiedeva cottura), diffondeva il batterio che causa il tifo addominale.

paziente zero, contagi - Typhoid Mary, Mary Mallon
Mary Mallon in un'illustrazione apparsa sul The New York American il 20 giugno 1909. © Lupo, via WikiMedia

Mary era probabilmente quello che oggi viene definito un superdiffusore, una persona che per ragioni biologiche non ancora del tutto chiare, oppure per comportamenti, contagia un numero di individui superiore alla media dei contagi per la stessa malattia. Qualcosa di simile pare sia avvenuto nel caso della SARS: nel 2003 un medico proveniente dal Guandong, la provincia della Cina in cui si era sviluppata la malattia, contagiò almeno altre 16 persone nell'hotel di Hong Kong in cui aveva passato una notte. Gli ospiti dell'hotel viaggiarono a loro volta in altri paesi dopo essersi infettati e si calcola che circa 4.000 casi si possano far risalire a quel singolo soggiorno.

Il medico, a sua volta, potrebbe essere stato contagiato da un paziente passato nell'ospedale in cui lavorava.

Parole che contano. Nel caso del nuovo coronavirus in Italia, è possibile che il paziente zero non venga mai identificato - e ormai, probabilmente, non è più neppure tanto rilevante per il contenimento dell'epidemia. C'è però un altro tema, come dimostra la situazione attuale. Parlando di malattie e contagi, le parole che vengono usate contano moltissimo: termini come "caso sospetto", "isolamento" e "paziente zero" possono rinforzare associazioni false o inesatte, e contribuire ad aumentare la paura, oltre che l'isolamento e la criminalizzazione nei confronti di chi ha contratto (o è sospettato di avere contratto) la malattia, dando quasi l'impressione che ci sia qualcuno da incolpare - qualcosa che ricorda molto da vicino l'untore, quando in Europa circolava la peste. Una guida messa a punto da OMS e Croce Rossa Internazionale dà indicazioni in materia, suggerendo per esempio di parlare di persone, anziché di "casi" e "vittime".

Per l'epidemiologia è importante capire dove e come un'epidemia è emersa e si è diffusa. Ma anche quando il paziente zero viene identificato è importante tenere a mente che quella persona non ha nessuna colpa per aver dato inizio a un'epidemia: gli è solo capitato di trovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato. Come potrebbe capitare a tutti.

Gli USA mettono il turbo. È delle ultime ore la notizia secondo cui anche gli USA sarebbero a buon punto nello sviluppo di un vaccino. Moderna, una società farmaceutica di Cambridge, Massachusetts, avrebbe annunciato l'inizio di studi clinici entro la fine di aprile, su circa 20-25 volontari sani. Per i risultati dei test bisognerebbe aspettare fino all'estate, probabilmente luglio o agosto, ma si tratterebbe comunque di tempi record: il vaccino contro la SARS venne sviuppato in venti mesi. «Sarebbe un record mondiale», ha spiegato Anthony Fauci, direttore dell'Istituto Nazionale delle Allergie e Malattie Infettive (NIH). «Mai nessun vaccino è stato realizzato così in fretta».

27 febbraio 2020 Chiara Palmerini
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