Salute

COVID-19: la mortalità sembra davvero più elevata nelle aree più inquinate

Uno studio conferma che nelle aree a più alta concentrazione di polveri sottili il tasso di letalità della COVID-19 è maggiore.

Uno studio dell'Università di Harvard aggiunge prove solide al presunto legame tra inquinamento atmosferico e gravità dell'epidemia da COVID-19. Secondo la nuova analisi, le aree geografiche con le più elevate concentrazioni di polveri sottili 2.5 (le più fini, capaci di entrare negli alveoli polmonari, dove avviene l'ossigenazione del sangue) sono anche quelle con il tasso di letalità più elevato da COVID-19. Ci sarebbe insomma un legame statistico molto solido tra l'esposizione a lungo termine al particolato atmosferico e la probabilità di incorrere nelle forme più gravi della malattia.

Un'ipotesi che si fa strada. La ricerca (consultabile qui), che è stata sottomessa per la revisione al New England Journal of Medicine, fa seguito ad altri studi che hanno visto nello smog un ulteriore fattore di rischio per gli esiti della COVID-19.

Uno di questi, condotto in Italia e pubblicato il 4 aprile sulla rivista scientifica Environmental Pollution, conclude che l'alto livello di inquinamento atmosferico sulla Pianura Padana (una delle aree più inquinate d'Europa) potrebbe aver contribuito all'elevata letalità dell'infezione in questa zona geografica.

Gli scienziati di Harvard hanno raccolto i dati sul particolato atmosferico in oltre 3000 contee statunitensi negli ultimi 17 anni, e li hanno confrontati con il numero di decessi per COVID-19 in ciascuna contea (una contea è un tipo di suddivisione territoriale nei singoli Stati americani). È emerso che un aumento di un microgrammo per metro cubo di PM 2.5 è associato con un incremento del 15% del tasso di letalità della COVID-19.

In altre parole, basta un piccolo aumento del livello di polveri sottili (un microgrammo per metro cubo corrisponde a una singola unità) per vedere notevolmente aumentare il rischio di conseguenze gravi della COVID-19: l'esposizione prolungata a questi inquinanti era già stata collegata a un incremento di morte per qualunque causa, ma questo aumento appare 20 volte più elevato per le morti da coronavirus.

Nessuna attenuante. Lo studio ha tenuto in considerazione molti altri fattori che possono incidere sulla salute e sulla qualità delle cure, come il livello di povertà, l'abitudine al fumo, l'obesità, il numero di tamponi per COVID-19 compiuti e la disponibilità di posti letto negli ospedali. Dall'analisi è stata inoltre rimossa la città di New York, che aveva una tale concentrazione di casi che avrebbe fatto sballare ogni statistica, e per lo stesso motivo sono state escluse anche le contee con meno di 10 casi confermati di infezione da coronavirus.

Inoltre, la ricerca ha considerato l'aggregazione di casi e non i dati sui singoli pazienti (con le loro caratteristiche sanitarie individuali): un limite che andrà colmato da successivi studi. Non ha chiarito se le polveri sottili abbiano un ruolo anche nella diffusione del virus e nella facilità di contagio, ma il collegamento con il tasso di letalità sembra statisticamente molto solido. Nel 2003, uno studio dell'Università della California di Los Angeles aveva concluso che i pazienti con la SARS che vivevano nelle zone più inquinate della Cina avevano il doppio delle probabilità di morire per l'infezione rispetto a chi abitava in aree poco inquinate.

Fattore di rischio. Respirare polveri sottili infiamma e danneggia il rivestimento ciliato che protegge le vie respiratorie, rendendo più vulnerabili alle infezioni polmonari e alle malattie respiratorie croniche. Lo studio fornirà indicazioni per individuare le aree più a rischio e attrezzarle per far fronte alle nuove ondate di COVID-19. Ma più in generale sarà un monito dell'importanza di garantire ai cittadini aria se non pulita, quanto meno respirabile.

10 aprile 2020 Elisabetta Intini
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