I nanomateriali potrebbero essere miracolosi per disinquinare. Ma immessi liberi nell’ambiente potrebbero anche rivelarsi un grosso problema. Se si diffondono seguendo le falde, e poiché sono invisibili e nessuno li cerca, potrebbero inquinare le acque potabili o il ciclo alimentare. E oggi li si sta maneggiando con leggerezza.
Lo prova un esempio italiano. Un’industria Gaglianico (in provincia di Biella), che aveva inquinato la falda con sostanze cancerogene, ha, nel 2005, provveduto al primo tentativo autonomo di disinquinamento usando nanoferro. Da questo punto di vista l’intervento ha avuto successo: l’inquinante è diminuito (dal 20 al 50% in meno), ma da 5 anni la popolazione che attinge l’acqua dalla falda non sa di essere sottoposta a un esperimento e nessuno sta monitorandone le eventuali conseguenze sulla salute.
La nostra inchiesta
Qui di seguito il resoconto passo per passo della nostra inchiesta nel tentativo di capire quali sono stati i controlli effettuati su questo esperimento, se ci sono eventuali rischi per la salute, e quali i controlli esistenti.
Tratti in inganno dalla concomitanza di due eventi, avevamo ipotizzato che la bonifica si fosse svolta senza la supervisione degli enti di controllo. Ma alla verifica abbiamo scoperto che non vi è nulla di irregolare: l’intervento è stato autorizzato dalla competente commissione e condotto in base alle attuali conoscenze.
Nanopulizie
Nel corso dello studio preliminare per scrivere l’articolo Nanosospetti trattato nel numero 225 di Focus in edicola dal 18 giugno 2011, ci siamo imbattuti in questa cartina che tratta di nanoremediation, cioè dove sono state usate le nanotecnologie per bonificare aree inquinate.
Questi siti sono concentrati prevalentemente negli Stati Uniti. Con sole 5 eccezioni europee, e una di queste è in Italia, a Biella. Cliccando infatti sulla goccia in territorio italiano si è aperta una finestra nella quale si specificava che nel 2005, in una proprietà privata, erano state trattate acque sotterranee contaminate da solventi clorurati Tce (tricloroetilene o tricloroetene) e Dce (tetracloroetilene), cioè trieline, in concentrazioni totali oscillanti fra 20 mila e 50 mila microgrammi per litro. E che le nanoparticelle di ferro zero valente (nZVI) avevano ridotto del 20-50% le concentrazioni di inquinante nell’arco di un mese.
Italia inquinata
Ora, per quanto si parli di microgrammi litro, non si tratta di piccole quantità. I limiti di legge per la concentrazione di tetracloroetilene e di tricloroetilene ammesse nelle acque potabili sono di 10 μg/l, mentre per la contaminazione delle acque sotterranee i limiti sono rispettivamente di 1,1 microgrammi/litro per il tetracloroetilene e di 1,5 microgrammi/litro per il tricloroetilene.
Ma nonostante l’inquinamento fosse consistente, non siamo riusciti a trovare documenti ufficiali in chiaro, che parlassero di questo esperimento. Solo un documento in lingua inglese, un report relativo a un convegno tenutosi a Zurigo il 24 novembre 2009, in cui fin dal titolo si ipotizzava che il nanoferro fosse “La” soluzione per la bonifica delle aree inquinate.
A pagina 26 di questo report si precisava che le bonifiche effettuate al novembre 2009 in Europa erano salite a 15, di cui 8 nella Repubblica Ceca, 1 in Slovacchia. 5 in Germania e 1 appunto a Biella. Si leggeva inoltre che la bonifica aveva richiesto l’infiltrazione di 10 kg di ferro per gravità in un mezzo poroso acquifero (cioè in acqua) e che la sperimentazione era stata condotta dalla Golder associates Germania, che peraltro ha una sede anche a Torino, e confermava che il trattamento aveva portato a una riduzione dell’inquinamento da solventi clorurati di circa 20-50% in un mese.
Rimando fatale
Non avevamo il tempo di approfondire questa notizia per cui l’abbiamo lanciata in modo impreciso su Focus, e, chiuso il numero, abbiamo ripreso le file del discorso chiedendo informazioni all’Arpa di Biella per capire che cosa ne sapevano.
Alle nostre domande ha risposto per iscritto Pietro Girò, responsabile del dipartimento provinciale Arpa di Biella, così.
«Nel 1996 una ditta ubicata al confine meridionale di Gaglianico (che Focus ha appurato essere la Ilario Ormezzano ndr), avendo riscontrato su terreno di sua proprietà, una importante contaminazione da solventi clorurati (oltre ad altri contaminanti che a seguito della bonifica non sono ormai più rilevabili analiticamente) provocati dalla sua attività (si tratta di una azienda di stoccaggio prodotti chimici e per questo motivo già inserita nell’elenco delle aziende a rischio di incidente rilevante ndr), effettua le indagini e presenta un progetto per la bonifica del terreno e delle acque sotterranee, che viene autorizzato dalle autorità competenti. L’estensione del pennacchio è di circa 400 metri, interessa per buona parte l’area dello stabilimento e per la restante parte aree prive di edifici di civile abitazione. L’evoluzione del pennacchio è monitorata da 14 piezometri di controllo… Come primo sistema di bonifica sono stati progettati 4 pozzi di emungimento, posti al confine meridionale dello stabilimento, (quindi all’incirca a metà pennacchio) che fungono da barriera idraulica (pump & treat). In questi pozzi viene convogliata l’acqua sotterranea inquinata proveniente dalla stabilimento e questa viene trattata e successivamente mandata in fognatura.
Nel 2004 la ditta Golder Associates Geoanalysis di Torino, che si occupa della bonifica per conto della ditta responsabile della contaminazione (Ilario Ormezzano ndr) ha presentato un’integrazione al progetto di bonifica e in quest’ambito ha proposto di effettuare una prova pilota con ferro zerovalente. Sono stati perforati appositamente 2 piezometri, di controllo distanti pochi metri dal punto di immissione per il monitoraggio delle concentrazioni dei parametri. La prova pilota, regolarmente autorizzata, è stata effettuata a monte del sistema di pozzi di captazione sopra citato e pertanto nulla di quanto viene immesso in falda può raggiungere altre utenze a valle (bersagli). Il sistema proposto si è rivelato antieconomico e pertanto è stata effettuata un’unica immissione nel febbraio 2005».
In altre parole normalmente la bonifica avviene estraendo l’acqua inquinata (pump) e inviandola in fognatura per la depurazione (treat). A questo sistema è stato aggiunto quello a base di nanoferro, seguendo lo schema (vedi disegno sotto) descritto da Wei-xian Zhang, il ricercatore che più si è occupato di questo nuovo materiale. Zahng lavora al department of Civil and Environmental Engineering della Lehigh university di Bethlehm, in Pensilvania, in un suo articolo scientifico del 2003.
Il nanoferro infatti ha la particolarità di ridurre l’inquinamento da organoclorurati (trielina). «Le molecole di questi inquinanti a contatto con la superficie del nanoferro, si scindono in etano e cloro, che non sono tossici» spiega Rajandrea Sethi, ingegnere ambientale docente di bonifiche ambientali del Politecnico di Torino.
C’è il rischio che il nanoferro finisca nelle falde dalle quali attingono l’acqua potabile o i pozzi privati? «No. La falda interessata è quella superficiale, entro i primi 10 metri di profondità, mentre la falda dalla quale attingono i pozzi di Gaglianico dell’acquedotto sono a 100 metri di profondità e a monte di questa area e spostate verso Est di diverse centinaia di metri» spiega Gianfranco Piancone, dirigente responsabile vicario dell’Arpa di Biella. «Quanto ai pozzi privati in questa area non ci sono abitazioni, solo capannoni industriali».
Buone notizie
Tranquillizzanti sono anche gli studi di Zahng, che dimostrano che il rischio può essere calcolato a priori. Il nanoferro agisce nel raggio di circa 6-10 metri dal pozzo di iniezione e può fluire al massimo per 20 metri con la corrente di falda. Inoltre le nanoparticelle, se non sono continuamente mescolate, tendono ad aggregarsi persino nella fase di immissione: maggiori sono gli aggregati, e più precipitano e non si spostano più. Infine a contatto con l’acqua le nanoparticelle di ferro ossidano, cioè arrugginiscono, tanto che in natura il ferro puro non esiste. È presente solo sotto forma dei suoi ossidi come l’ematite, la magnetite, la taconite e altri. Insomma al momento non ci sono indizi che il ferro possa causare problemi neppure nella forma nano.
Nè a ormai 6 anni da quell’intervento, si notano focolai di alcun tipo. «Le strutture epidemiologiche regionali seguono l'andamento della natalità da molti anni, e sono state segnalate varie anomalie, ma nessuna in relazione a picchi di incidenza per malformazioni o altre particolarità nel biellese» dice Ennio Cadum, responsabile dell’Epidemiologia e salute ambientale dell’Arpa Piemonte.
Le nanotecnologie puliscono e non creano problemi
Il nanoferro e ancor più il microferro (la limatura di ferro) sono una speranza per chi si occupa di disinquinamento. L’analisi sistematica delle acque sotterranee italiane, iniziata solo a partire dal 1999, affidata alle Regioni e ancora incompleta ha rivelato che il 45,1% delle acque sotterranee sono definite scadenti o non buone per la presenza di inquinanti. In particolare nitrati, metalli pesanti quali manganese e ferro, arsenico, cadmio, mercurio, cromo, boro, cloruri e solfati, pesticidi e sostanze organo clorurate: tutte sostanze molto dannose per la salute umana. E prima o poi dovremo ricorrere a metodi di disinquinamento ambientale. «Le nostre maggiori speranze sono proprio nelle nano e micro tecnologie» dice Sethi.