Una sperimentazione farmacologica per contrastare la malattia di Alzheimer prima dell'esordio dei sintomi è fallita. Per chi si dedica alla ricerca di un cura contro la più comune forma di demenza è l'ennesimo duro colpo, che si intreccia, in questo caso, con una brutta pagina di scienza: secondo il New York Times, i pazienti coinvolti nello studio non sarebbero stati avvertiti personalmente dell'esito negativo della terapia, e avrebbero appreso la notizia dai social.
I candidati ideali. Lo studio internazionale chiamato DIAN-TU, condotto alla Washington University di St. Louis, ha coinvolto 194 partecipanti recanti mutazioni genetiche associate a una sovrapproduzione di proteina beta amiloide e a un esordio precoce della malattia di Alzheimer. I farmaci testati - il gantenerumab e il solanezumab, prodotti rispettivamente da Roche ed Eli Lilly - prendono di mira le placche amiloidi caratteristiche della demenza. Pochi pazienti mostravano sintomi molto lievi della malattia, la maggior parte neanche quelli; tutti i soggetti erano più giovani dei pazienti tipici con Alzheimer e non avevano anomalie neurologiche.
Per cinque anni i pazienti hanno ricevuto iniezioni o infusioni mensili dei due farmaci e sono stati ripetutamente controllati con esami del sangue, scansioni cerebrali e analisi del liquor (il fluido che permea il sistema nervoso centrale). Nonostante le premesse, i farmaci non sono riusciti a rallentare o fermare il declino cognitivo dei partecipanti. Potrebbe essere un problema di dosaggio troppo basso, o di somministrazione già tardiva: forse il trattamento andrebbe iniziato molti decenni prima dell'esordio dei sintomi e, comunque, tornando alla sperimentazione, non è chiaro in quale misura i due farmaci abbiano agito sulle placche amiloidi.
Quale direzione? I risultati, ancora in fase di revisione, saranno presentati a Vienna il 2 aprile, ma la notizia ha riacceso il dibattito sull'opportunità di passare oltre la convinzione che le placche amiloidi siano da considerare il principale bersaglio terapeutico. La progressione della malattia procede con la diffusione di placche amiloidi, seguita dall'accumulo di grovigli di un'altra proteina, la tau, e quindi dalla morte dei neuroni. Ma la ricerca di un trattamento contro l'Alzheimer ha già incassato 300 fallimenti farmacologici: in molti sono ora convinti che l'accumulo di amiloide non sia il vero responsabile di questa condizione. Questa proteina è il target della maggior parte dei trial farmacologici arrivati in fase 3, quella in cui si testa con rigore la loro efficacia sull'uomo. Tuttavia gli studi più recenti e ancora in una fase iniziale di sviluppo si concentrano già su altri obiettivi e su nuovi metodi di cura e prevenzione.
Nessuna considerazione. Oltre al dibattito più strettamente scientifico, la vicenda offre un esempio di scarsa sensibilità per i pazienti coinvolti e per le ripercussioni della notizia sulle loro vite. Un portavoce dell'Università ha fatto sapere che i ricercatori "non avevano un modo diretto e veloce" di contattare i soggetti per avvisarli personalmente della non efficacia della terapia. Ma questo non ha impedito all'ateneo di pubblicare sul suo sito un comunicato stampa che annunciava il fallimento della sperimentazione - oltretutto, due mesi prima della presentazione ufficiale dei risultati. I pazienti che per cinque anni si erano prestati all'esperimento, riponendovi le loro speranze, hanno dovuto apprendere il fatto dai social. Un 41enne di Denver lo ha saputo navigando in un gruppo privato su Facebook frequentato da persone geneticamente predisposte ad Alzheimer precoce. Nella sua famiglia, l'età media di esordio della demenza è di 47 anni.