Alcune persone di un'area rurale della Colombia caratterizzata da un'alta incidenza di Alzheimer precoce, ossia in giovane età, saranno tra pochi mesi al centro di una innovativa ricerca sull'accumulo della proteina tau, una caratteristica tipica (ma ancora poco studiata) della demenza di Alzheimer.
Come riporta un articolo sul sito di Nature, da oltre 30 anni i ricercatori del dipartimento di neuroscienze dell'università di Antioquia (Medellín, Colombia) tracciano una mutazione genetica comune nella regione, che causa l'insorgenza dell'Alzheimer tra i 40-50 anni, un esordio precoce rispetto alla media di oltre 65 anni della maggior parte delle persone colpite dalla malattia.
Si pensa che questa mutazione sia arrivata in Sud America con i conquistadores spagnoli, 375 anni fa, e che si sia poi diffusa tra 25 macro famiglie di Antioquia, che comprendono oggi complessivamente circa 5.000 persone. I ricercatori di tutto il mondo hanno studiato questa popolazione in modo continuativo e approfondito, pubblicando decine di articoli scientifici: è da questi studi che si è scoperto che l'accumulo di placche amiloidi all'esterno dei neuroni (formate da proteine beta-amiloidi anomale nel cervello dei malati) può precedere di decenni l'insorgenza dei primi sintomi.
Qual è il bersaglio? Alcuni studi hanno messo in dubbio che le beta-amiloidi anomale siano la causa vera della malattia, perché placche amilodi sono state trovate anche nel cervello di superagers, parola che identifica anziani con brillanti funzioni cognitive. C'è al momento forse più attenzione su di un altro marker dell'Alzheimer, la proteina tau, che di norma aiuta a stabilizzare le strutture che permettono ai neuroni di comunicare tra loro. Il cervello delle persone con malattia di Alzheimer produce proteina tau in alte quantità e in modo disfunzionale: questa sostanza si accumula (all'interno dei neuroni) in grovigli che sembrano aumentare al ritmo dei sintomi.
tecnica all'avanguardia. Tra qualche mese, un team dell'Università di Antioquia coordinato dal neurologo Francisco Lopera sarà tra i primi al mondo a studiare, su quella popolazione, la velocità di diffusione e l'abbondanza della proteina tau grazie a una tecnica disponibile solo in pochi centri di eccellenza al mondo: la tomografia a emissione di positroni (PET) con biomarcatori radioattivi, per evidenziare l'evoluzione della proteina tau in tempo reale e su pazienti vivi, e di ricostruire - si spera - il suo ruolo nella malattia.
Pezzi di un puzzle misterioso. A febbraio Lopera ha pubblicato uno studio pilota condotto a Boston su 24 persone di una famiglia di Antioquia dimostrando che, nelle persone con la mutazione genetica caratteristica di quella popolazione, i grovigli di tau iniziano ad accumularsi sei anni prima dei primi sintomi.
Altre ricerche hanno collegato l'abbondanza di tau nei centri del linguaggio a problemi nelle funzioni linguistiche, altre ancora si sono concentrate sulle soluzioni farmacologiche per ridurre l'eccesso della proteina (ma la ricerca di nuovi farmaci è ormai al palo).
Cambio di percorso. Lo studio di Lopera e colleghi è iniziato nel 2013 con l'obiettivo di testare l'efficacia di un farmaco che prende di mira le placche amiloidi, il crenezumab (della Roche). Il team ha reclutato 252 partecipanti tra i 30 e i 60 anni di età, perché chi è affetto dalla mutazione genetica per l'Alzheimer precoce inizia ad accumulare placche amiloidi intorno ai 30 anni di età. I volontari hanno ricevuto placebo o crenezumab per cinque anni (il minimo indispensabile per avere riscontri affidabili), a settimane alterne: lo studio si sta adesso avviando alla conclusione testando i livelli di proteina amiloide nel cervello dei volontari, le loro funzioni cognitive e la presenza di eventuali altri biomarcatori della malattia.
L'attenzione del team sta però virando sulla tau: non appena il gruppo avrà ottenuto le autorizzazioni necessarie per produrre il marcatore radioattivo da usare per la PET, potrà iniziare a lavorare per capire come la proteina tau si diffonda nel cervello delle persone giovani, e se il livello di questa sostanza equivalga a quello nel cervello dei più anziani pazienti con demenza. I primi risultati saranno pubblicati al termine dello studio, dopo il 2022.