Un nuovo farmaco sviluppato contro il morbo di Alzheimer ha dato risultati giudicati interessanti: è riuscito a ridurre l’accumulo delle placche nel cervello, ritenute responsabili della malattia, e a rallentare il declino cognitivo considerato inesorabile. La sperimentazione è ancora nelle prime fasi e il numero di pazienti su cui la terapia è stata testata è piccolo, ma il risultato viene presentato dalla rivista Nature con una certa enfasi, un tono inconsueto per la rivista ma comprensibile per un settore in cui finora i fallimenti sono stati assai più numerosi dei successi.
Anticorpo anti-placche. Il nuovo farmaco si chiama aducanumab: è un anticorpo monoclonale che ha come bersaglio gli aggregati di proteina beta-amiloide ritenute, nell’ipotesi più accreditata, il principale fattore di innesco dell’Alzheimer. L’anticorpo, sviluppato dalla statunitense Biogen, è da qualche tempo sotto i riflettori come possibile terapia, e un precedente studio clinico aveva già alimentato qualche speranza (vedi Alzheimer: un nuovo farmaco, del 2015). I nuovi risultati sembrano consolidare le aspettative.
La prova sul campo. Nello studio clinico, 165 pazienti nelle fasi iniziali della malattia, quando il declino cognitivo e la perdita di memoria sono già iniziati ma non sono ancora gravi, sono stati sottoposti a infusioni mensili dell’anticorpo, oppure di un semplice placebo.
A un anno di distanza, il gruppo che ha ricevuto il farmaco ha presentato una marcata riduzione delle placche di beta-amiloide nel cervello, misurate con la Pet, e chi ha ricevuto le dosi più alte ha anche avuto la maggiore diminuzione, come ci si aspetterebbe nel caso di un farmaco che funzioni.

Nei malati che hanno ricevuto il placebo non è stato invece osservato alcun cambiamento. Inoltre, anche se lo studio clinico doveva nelle intenzioni solo verificare la sicurezza delle diverse dosi del farmaco e la sua attività di riduzione delle placche, nei pazienti che lo hanno ricevuto è stato anche osservato un certo rallentamento del decadimento mentale. Questo è un indizio importante perché confermerebbe una delle due ipotesi sulla genesi dell’Alzheimer, e cioè che le placche di proteina beta-amiloide siano davvero una causa importante della malattia e dei suoi sintomi, non soltanto una conseguenza a valle di qualche altro meccanismo, come alcuni esperti sostengono.
Cautela. La prudenza è comunque d’obbligo considerando il numero di farmaci testati contro l’Alzheimer che, promettenti nelle prime fasi di sperimentazione, si sono poi rivelati dei fallimenti. Non è neppure la prima volta che un molecola mirata contro le placche dell’Alzheimer nel cervello è riuscita a ridurle, senza però poi superare la prova del nove: far regredire i sintomi della malattia, cioè il declino cognitivo dei pazienti.
«Spero che i trial clinici di fase III (quelli in cui si verifica l’efficacia di una terapia su un numero ampio di persone, ndr) siano un successo, ma ho una sensazione di dèja vu», ha dichiarato per esempio Gordon Wilcock, professore all’università di Oxford.
Un curriculum interessante. A far sperare bene è invece il fatto che l’anticorpo - come ha detto nella conferenza stampa di presentazione Alfred Sandrock, di Biogen, principale firmatario dello studio - è in grado di entrare nel cervello e riconoscere e legarsi in modo specifico alle placche, e che la riduzione delle placche è stata decisamente maggiore di quella osservata in altri casi.
Interessante è anche la storia dello sviluppo del farmaco: l’aducanumab è un anticorpo umano, isolato in persone sane che avevano mostrato una particolare resistenza al declino cognitivo, mentre i suoi livelli erano molto bassi negli anziani colpiti da Alzheimer. Questo ha fatto sospettare che potesse avere un ruolo protettivo. Lo sviluppo dell’anticorpo come terapia e la sua successiva sperimentazione si basano su questo assunto: se è giusto, si dovrebbe sapere nel giro di poco.
Priorità. La posta in gioco è alta: già oggi i costi per l’assistenza dei malati (si stima siano 700 mila in Italia) sono paragonabili all’intera economia di Paesi sviluppati, tanto che il morbo di Alzheimer è anche oggetto di discussione nella campagna elettorale americana. Entrambi i candidati alla presidenza, Hillary Clinton e Donald Trump, hanno messo il morbo tra le “priorità” di cui intendono occuparsi.