Salute

Alzheimer, forse si guarda nel punto sbagliato

Secondo l'ipotesi di un gruppo di ricercatori italiani, all'origine della malattia ci sarebbe la disfunzione di un gruppo di neuroni in una zona diversa del cervello da quella finora presa in considerazione.

Una delle prime regioni del cervello a subire danni per il morbo di Alzheimer è l’ippocampo, zona che ha una funzione chiave per la memoria: questo è ciò che finora si è sempre detto. Potrebbe però non essere così.

Sarebbe un’altra parte del cervello, finora trascurata, a svolgere un ruolo molto importante nell’insorgere della malattia. Secondo uno studio condotto da un gruppo di ricercatori della Fondazione IRCCS Santa Lucia, del Cnr di Roma e dell’Università Campus Bio-Medico, appena pubblicato sulla rivista Nature Communications, a innescare il meccanismo che poi porta allo sviluppo e ai sintomi tipici del morbo potrebbe essere il malfunzionamento di particolare gruppo di neuroni in una zona profonda del cervello.

Si tratterebbe dei neuroni che producono dopamina, un importante neurotrasmettitore che garantisce la comunicazione tra le cellule cerebrali, e che è coinvolto anche nella regolazione di molti processi cognitivi e dell’umore.

Il problema a monte. Sperimentando con topi geneticamente modificati per simulare una malattia come l’Alzheimer, i ricercatori guidati da Marcello D’amelio, direttore del laboratorio di neuroscienze molecolari alla Fondazione Santa Lucia, hanno rilevato un fatto particolare: con l’avanzare dell’età, nel cervello dei topi si verificava una degenerazione dei neuroni produttori di dopamina nell’area cosiddetta tegmentale ventrale, mai presa in considerazione finora nello studio della malattia, in una fase in cui invece le altre aree collegate alla malattia non presentavano ancora alcun segno di sofferenza.

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Alcuni cambiamenti carattestici nel linguaggio e nel vocabolario potrebbero essere una spia della malattia anni prima che si manifesti. Vedi anche: Discorsi prolissi un segno precoce di Alzheimer? © Louise Leclerc/Flickr

Studiando i processi fisiologici successivi, i ricercatori hanno osservato che la morte di quei neuroni provocava una diminuzione del flusso di dopamina verso l’ippocampo, la struttura fondamentale per la memoria, e considerata la prima a essere intaccata nel morbo.

Memoria restaurata. Una conferma ulteriore di questa ipotesi è venuta con un’altra fase dell’esperimento. I ricercatori hanno somministrato ai topi malati di Alzheimer due terapie: una a base di L-DOPA, una sostanza precursore della dopamina, l'altra, la selegilina, che invece contrasta la sua degradazione.

In entrambi i casi, i livelli di dopamina nell’ippocampo sono tornati alla normalità, e in più gli animali hanno recuperato la memoria.

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I segni tipici della demenza sono stati trovati anche nel cervello di anziani con una memoria "da giovani": qualcosa protegge i loro neuroni dall'effetto tossico dei grovigli di proteine. Vedi anche: Placche dell'Alzheimer nel cervello dei superager. © BSIP SA / Alamy / IPA

Altro indizio significativo a favore dell’ipotesi dell’origine dell’Alzheimer nell’area tegmentale ventrale è che la dopamina qui prodotta arriva anche al nucleo accumbens, un’area del cervello che regola e modula l’umore e in particolare la motivazione. Uno dei primi sintomi della malattia, che a volte precede anche la perdita di memoria, è proprio la depressione, e secondo i ricercatori anche questo potrebbe essere dovuto all’apporto difettoso di dopamina.

Un nuovo obiettivo. Il nuovo studio non ha portato novità in termini di possibili terapie per la malattia, che colpisce oggi in Italia circa mezzo milione di persone oltre i 60 anni. Se però le conclusioni saranno confermate, l'ipotesi sposta il focus dell’attenzione per lo studio dell’Alzheimer su una zona del cervello diversa da quella che si pensava. E anche la comprensione del morbo e delle sue cause potrebbe subire cambiamenti radicali.

4 aprile 2017 Chiara Palmerini
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