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Nel 2004, fra mille polemiche, il Parlamento italiano varava la legge 40 sulla procreazione medicalmente assistita, che vietava molte procedure normalmente praticate negli altri Paesi e permesse – fino ad allora – anche da noi. Sottoposta a un referendum che non ha raggiunto il quorum, la legge è stata tuttavia smantellata negli anni seguenti da sentenze di diversi tribunali italiani e della Corte europea di Strasburgo, che hanno restituito alle coppie parte delle possibilità negate, ma hanno anche creato non pochi dubbi e perplessità.
Riassumendo: resta il divieto per l'eterologa, ma oggi è di nuovo possibile congelare gli embrioni, produrne più di tre e impiantare nell'utero solo quelli ritenuti necessari a ottenere la gravidanza. Inoltre, è stata restituita la possibilità di accedere alla fecondazione in vitro per le coppie che non sono sterili, ma sono portatrici di malattie che potrebbero essere trasmesse ai figli. Il rischio di avere un bambino malato può infatti essere scongiurato grazie alla diagnosi pre-impianto, che permette di analizzare lo stato di salute degli embrioni prodotti in laboratorio, e di impiantare poi nell'utero materno solo quelli certamente sani.
Le cifre in Italia
La legge 40 istituiva anche un registro nazionale, che ogni anno elabora un rapporto che fotografa l'evolversi della nostra situazione ed è curato da Giulia Scaravelli, all'Istituto Superiore di Sanità. «Oggi in Italia il 2,2 per cento dei bambini nasce grazie alla procreazione medicalmente assistita, un dato in linea con quello degli altri Paesi europei» dice la ricercatrice. E la richiesta è in continuo aumento: dal 2005 al 2010, le coppie che si sono sottoposte ad almeno un trattamento sono passate da 46.519 a 69.797, mentre i centri specializzati da 315 a 357. «Oggi sono 361, di cui 207 privati, e sono presenti in tutte le regioni, ma più diffusi al Nord» prosegue Scaravelli.
Differenze geografiche
Ma se l'offerta sembra ampia, andando più in profondità nei dati si scopre che la qualità dei servizi offerti non è affatto uniforme sul territorio. Per esempio «solo 121 centri, situati per lo più nelle regioni settentrionali, congelano gli embrioni» dice l'esperta. E sono ancora pochissime le strutture pubbliche che offrono la diagnosi pre-impianto, mentre quelle private sono in tutto una ventina. Molto variabili sono infine i costi e i tempi di attesa.
Costi variabili
In media, per una fecondazione in vitro si spendono 3.600 euro nei centri privati, e 200-300 in quelli pubblici, ma ci sono forti differenze fra una Regione e l'altra. Riguardo alle attese poi, si va dalla rapidissima Valle D'Aosta, dove anche nel pubblico si aspetta solo una settimana, alle lentissime Liguria, Toscana, Lazio, provincia di Trento e Sicilia, dove possono passare anche due anni, durante i quali l'orologio biologico avanza e le probabilità di successo diminuiscono.
Per tutti questi motivi, gli aspiranti genitori che migrano da una regione all'altra sono sempre più numerosi: i dati della Commissione errori sanitari della Camera, presentati a fine gennaio, dicono che quasi il 40 per cento delle coppie siciliane si reca al Nord, sperando di avere un servizio migliore, accorciare i tempi e spendere un po' meno.
Fughe all'estero
Ma le trasferte lungo lo stivale non sono i soli viaggi della speranza. Quelli più impegnativi, sia economicamente che psicologicamente, hanno per protagoniste le circa 4.000 coppie che ogni anni si recano all'estero.
La metà lo fa per sottoporsi alla fecondazione eterologa (quando il seme oppure l'ovulo provengono da un soggetto esterno alla coppia), che da noi è vietata. Ma le altre espatriano per seguire trattamenti che sono disponibili anche in Italia, perché non lo sanno, o perché sono convinte di trovare oltreconfine medici più preparati.
«La presunta maggiore competenza dei centri esteri è un mito da sfatare» dice Andrea Borini, che è anche presidente dell'Osservatorio sul turismo procreativo. «In Italia i tassi di successo sono in media con quelli degli altri Paesi». La Spagna, la Svizzera, e la Repubblica Ceca sono le mete preferite per l’eterologa, mentre si va in Belgio per la fecondazione omologa. L'ultimo rapporto dell'Osservatorio registra poi una preoccupante crescita dei flussi verso Nazioni in cui la qualità delle cure non è considerata ottimale, ma i costi sono più contenuti, come l’Ucraina. «Uno dei problemi riguarda i donatori di spermatozoi e cellule uovo, che nei Paesi UE sono sottoposti a rigidi controlli, ma che altrove non sono monitorati con altrettanta perizia» dice l'esperto.
Secondo i dati dell'Osservatorio, sarebbero infine alcune decine le coppie italiane che sono ricorse all’utero in affitto, o maternità surrogata, vietata dalla legge 40, ma unica soluzione per le donne che hanno subito l'asportazione dell'utero, o hanno malattie che impediscono l'attecchimento dell'embrione.
Le mete più gettonate sono l'Ucraina, la Grecia, l'India e, più delle altre, gli Stati Uniti, dove questa pratica è diffusa e regolata da leggi molto precise, a protezione dei bambini e delle famiglie. Per una cifra variabile fra i 70.000 e i 165.000 dollari, gli aspiranti genitori incaricano un’agenzia specializzata di cercare la madre surrogata che affitterà l'utero, e provvedere a stilare un contratto, nel quale è specificato che donna che porta a termine la gravidanza non ha alcun diritto sul nascituro.
Se è necessario ricorrere a una fecondazione eterologa, l’eventuale ovocita deve provenire da una donatrice esterna, che è quindi la terza “mamma” a intervenire nel processo. Su vicende come queste è solitamente mantenuto uno stretto riserbo, ma quando a sfruttare tutte queste possibilità sono stati cittadini di Paesi in cui la pratica è permessa, e le loro storie sono venute alla luce, i giornali hanno parlato di “neonati con tre mamme”.