Aderire agli screening oncologici può salvare la vita: i programmi di screening vengono infatti condotti su una fascia di popolazione per individuare un tumore in stadio iniziale o condizioni che lo favoriscono, in assenza di sintomi o segni correlati. Non per tutti i tumori sono possibili esami di screening: in Italia i programmi prevedono il PAP test o l'HPV test per il tumore del collo dell'utero nelle donne, la ricerca del sangue occulto nelle feci per la diagnosi del tumore del colon-retto in tutta la popolazione oltre i 50 anni e lo screening del tumore alla mammella, con programmi che in questo caso tuttavia sono un po' diversi da Regione a Regione.
Non uguale ovunque. Se infatti gli altri screening sono sostanzialmente omogenei ovunque, per il tumore alla mammella le Regioni applicano i Livelli Essenziali di Assistenza con una certa discrezionalità e così «Il "pacchetto base" prevede una mammografia ogni due anni fra i 50 e i 69 anni, ma poi alcune Regioni estendono fino ai 74 anni, altre anticipano con mammografie annuali fra i 45 e i 49 anni», spiega Giampaolo Bianchini, responsabile della patologia oncologica della mammella presso il Dipartimento di Oncologia medica dell'IRCCS Ospedale San Raffaele di Milano.
«L'intervallo più corretto sarebbe il più ampio, perché fra i 45 e i 49 anni il rischio di neoplasia aumenta e il beneficio individuale connesso a una diagnosi precoce è indubbiamente rilevante; l'incidenza del tumore poi cresce anche con l'età e così lo screening andrebbe prolungato dopo i 70 anni, perché altrimenti si esclude una popolazione con una probabilità di malattia elevata e un'aspettativa di vita ancora lunga». I programmi di screening vengono "disegnati" tenendo conto dei costi per la collettività e della disponibilità delle risorse, e per questo non sono realizzati allo stesso modo dappertutto; tuttavia è importante limitare i controlli estemporanei di prevenzione spontanea, aderendo invece agli screening previsti perché, come specifica Bianchini, «gli screening indicano la regolarità dei controlli, da fare a cadenza fissa, e soprattutto li inseriscono in un piano che consente di accedere ad eventuali accertamenti di secondo e terzo livello secondo passi successivi già definiti nel percorso, che quindi rendono più semplice l'iter della paziente».
Mammografia o ecografia? «Anche il contesto in cui si esegue l'esame di screening, che è la mammografia, è rilevante», aggiunge Bianchini. «Proprio perché aderire significa inserirsi in un percorso e non fare un test singolo, andare in centri dedicati allo screening implica per esempio poter accedere all'ecografia in caso la mammografia non sia il test più affidabile per il caso specifico.
Un esempio sono le mammelle dense, nelle quali il rischio tumorale è più elevato e la mammografia ha un potere diagnostico inferiore: queste donne devono completare il percorso con un'ecografia, e ciò accade senz'altro in un centro dedicato allo screening, ma potrebbe non essere altrettanto garantito se ci si sottopone al test in maniera autonoma in una struttura che fa mammografie. In una mammella poco densa invece la mammografia ha un altissimo potere discriminatorio e l'ecografia non aggiungerebbe molte informazioni».
I due test possono essere complementari, ma a oggi non ci sono studi scientifici che abbiano dimostrato senza dubbio che unire mammografia ed ecografia riduca maggiormente la mortalità di più rispetto alla sola mammografia: per questo non si sottopongono tutte le donne anche all'ecografia ma, come conclude Bianchini, «nell'ambito dei programmi di screening strutturati viene offerta alle donne che possono trarne beneficio, adeguando l'offerta alle necessità di ciascuna: quel che conta, quindi, è aderire agli screening proposti dalla propria Regione sottoponendosi all'esame nei centri dedicati a questo».