Il 10 marzo scorso mi sono ammalato. Faccio ogni anno il vaccino antinfluenzale e dunque la febbre mi è subito risultata sospetta. Quando poi è durata tredici giorni, accompagnata da forti dolori alla schiena, cefalea, alterazione del gusto e da un'eruzione cutanea, i medici hanno confermato i miei sospetti: Covid-19.
Nel numero di Focus adesso in edicola troverete uno speciale sul coronavirus, sulla sua insidiosità ma soprattutto sulle capacità che abbiamo noi essere umani di contrattaccare attraverso il sistema immunitario, di curare, di inventare medicine, di reagire con la forza della solidarietà. Infatti il titolo di copertina è: Vinciamo noi.
Nell'editoriale c'è un accenno alla mia vicenda di presunto malato di Covid-19. Scrivo e ripeto presunto, perchè nessuno ha mai certificato la diagnosi. I medici mi hanno seguito a distanza e nonostante le mie continue richieste ai numeri verdi, mi è sempre stata data la stessa risposta: "In Lombardia i tamponi si fanno soltanto ai pazienti gravi".


Invisibili. Appartengo dunque a quell'esercito di malati sfuggito alle statistiche. Alla vigilia dei quattordici giorni senza più sintomi che sancivano la mia (anch'essa presunta) guarigione, ho scritto alle autorità sanitarie e alla Regione, ho richiamato i numeri verdi, per chiedere ancora una volta il tampone: "Non lo faccio per me - ho detto -: se prima poteva essere utile per circoscrivere il contagio mappando le persone che avevo incontrato e individuando altri eventuali casi di Covid-19, adesso il tampone può verificare che io non sia più contagioso e dunque un pericolo per gli altri, per i farmacisti, per le cassiere dei supermercati o per i miei familiari che non vedo da un mese. Se dovessi contagiarli, chiamerò voi a risponderne, voi che mi dichiarate guarito senza avermi fatto il tampone". Niente da fare, un muro di gomma.
TEst sierologico. Ma non mi sono rassegnato all'idea che potessi diventare un untore, per quanto avessi l'avallo delle autorità preposte a difendere la salute pubblica. Ho letto dei test sierologici che alcuni Comuni, disubbidendo alla Regione, fornivano ai cittadini e ho disubbidito anch'io. Da presunto guarito ho preso l'auto, ho percorso 81 chilometri e mi sono sottoposto all'esame.
Avevo ascoltato alcune avvertenze:
- questi esami possono avere un margine di errore;
- secondo logica sarebbe meglio non andare in ordine sparso ma fare uno screening uguale per tutti che lavori su grandi numeri (la Regione Lombardia adesso ha protocollato il suo, con l'ospedale San Matteo di Pavia e ho chiesto al mio medico di mettermi in lista);
- al contrario del tampone, questi esami non verificano la contagiosità ma misurano il livello degli anticorpi, vedono se si è incontrato il virus e quanta immunità si è sviluppata.
Mi sono detto: tra il niente e la possibilità di saperne di più, scelgo la possibilità.
Così sono andato a Robbio, in provincia di Pavia, mi sono messo in fila al palazzetto dello sport trasformato in laboratorio di analisi, ho pagato 45 euro, ho fatto il prelievo e sono tornato a casa ad aspettare il referto.
Il responso. È arrivato qualche giorno dopo: "Lei è negativo, ha gli Igg allo 0,6 e gli Igm allo 0,1 (i primi sono gli anticorpi che si sviluppano col passare del tempo, i secondi appena incontrano il virus; e la positività certa viene data con valori sopra l'1,1 ndr.). Da questi esami lei non ha mai incontrato il coronavirus".
Ho subito chiamato i miei medici: possibile? La risposta: per noi i sintomi parlavano chiaro. Ho chiamato alcuni virologi: i test possono aiutarci a studiare l'immunità e la sua durata ma hanno un margine di errore. Così, come nel gioco dell'oca, sono tornato alla casella di partenza da cui ero partito. Senza risposte, o meglio con una risposta messa da più parti in discussione.
Falsi negativi. E il mio non è un caso unico, ce ne sono anche di molto più anomali: mi hanno raccontato di un'infettivologa di un grande ospedale milanese a cui malattia e guarigione sono state certificate dal tampone, risultata negativa al test sierologico. Un rompicapo. Ma almeno per lei il tampone aveva certificato la presenza della malattia e la sua guarigione. Perciò rimango convinto che la strada dei tamponi vada battuta con determinazione, tanto più tra chi si ammala.
Capisco che la prima linea sia quella degli ospedali dove medici e infermieri ci hanno dato un'esemplare lezione di educazione civica e umana, ma proprio per evitare che quella prima linea venga travolta (come in alcuni momenti è successo) bisogna contrattaccare e andare a cercare il virus ovunque esso sia, bisogna circoscriverlo e neutralizzarlo.
Una voce per tutti. Ho accettato di raccontare la mia storia a giornali e tv non perchè è la mia storia ma perchè è la storia di tanti. Sono molte migliaia le persone che si sono trovate nella stessa situazione ed è a loro che ho voluto dare voce. Persone che conoscevo e persone che non conoscevo, persone che mi hanno chiamato per dirmi: vai avanti.
Se una donna malata, qui a Milano, sta chiusa in una stanza e chiede il tampone visto che il marito nella stanza accanto ha una grave patologia e lei vuol esser certa della guarigione per non contagiarlo, non le si può dire di no come le è stato detto.
Se un libero professionista chiama per segnalare che il suo collega di studio è morto di Covid19 e chiede il tampone, non gli si può dire di no per poi aspettare che lui contagi moglie e figli (come è successo).
Se un'impiegata si ammala e chiede il tampone sottolineando che una collega si è ammalata e un'altra è in ospedale, non le si può dire di no, perchè è evidente che il suo ufficio è un probabile focolaio da monitorare e da spegnere. Se un manager segnala che il badante dei suoi genitori novantenni è stato ricoverato e chiede il tampone per la coppia, non gli si può dire di no.
Il caso del Veneto. È pieno di storie così. Nelle conferenze stampa si è sentito spesso ripetere: siamo stati travolti da uno tsunami, facile parlare stando in poltrona. Intanto stiamo parlando di malati e non di gente in poltrona. E poi non è proprio così. In Veneto, tanto per fare un esempio di scuola, è andata meglio.
Lì il professore Andrea Crisanti, docente di Microbiologia dell'Università di Padova, quando già a gennaio i primi report dalla Cina delineavano i contorni dell'emergenza, ha capito che bisognava farsi trovare preparati. E non si è limitato a fare un rapporto allarmato come quello che abbiamo in questi giorni scoperto essere stato per settimane sulle scrivanie del governo. Ha capito che i tamponi erano una priorità (nei laboratori dell'Ateneo ha prodotto mescole di reagenti per due milioni di tamponi) e ha capito che i primi luoghi da mettere in sicurezza erano gli ospedali.
Scavalcando gli ingranaggi delle burocrazia italiana (in questo momento, per dire, ci sono in Italia sette grandi comitati scientifici sul coronavirus con sette catene di comando), ha alzato il telefono a ha chiesto direttamente del presidente della sua Regione, Luca Zaia. Ha parlato, ha spiegato, ha circostanziato, ha insistito e ha ottenuto il via libera ad approntare subito la difesa preventiva.
Teorema Sebastiano. L'attegiamento di Crisanti è quello che io chiamo il teorema Sebastiano, dal nome di un amico molto previdente. Uno di quei tipi che la gran parte di noi considera "troppo" previdente. Anche Sebastiano, senza essere uno scienziato, alla fine di gennaio leggendo le notizie provenienti dalla Cina, si è chiesto: che cosa mi servirà se il contagio dovesse arrivare qui? Guardando Whuan, la prima cosa a cui pensò furono le mascherine.
Ne comprò uno stock quando da noi nessuno parlava di mascherine. Più di un mese dopo, in Italia scattò il lockdown e le mascherine erano introvabili ma Sebastiano ne aveva a sufficienza da mandarne un pò a sua madre, a sua figlia, a qualche amico.
Impreparati. Ecco, io dalle autorità sanitarie e da chi governa mi aspetto sempre e mi sarei aspettato tanto più in questa situazione, l'applicazione del teorema Sebastiano. Mentre politici di tutti i colori a febbraio sfilavano dicendo che il Paese e le città non si sarebbero fermate, la pletora di funzionari pubblici deputati alla salute e i loro referenti assessori/ministri/presidenti, dietro le quinte avrebbero dovuto fare il loro dovere e si sarebbero dovuti chiedere: se il virus arrivasse da noi, che cosa ci servirebbe? Che cosa possiamo imparare dai cinesi? Siamo attrezzati per soddisfare tempestivamente le eventuali necessità?
Avrebbero capito già allora che le rianimazioni sarebbero state insufficienti, che gli ospedali e i luoghi di ricovero in genere sarebbero dovuti essere messi prioritariamente in sicurezza insieme al personale e ai pazienti, che i tamponi sul territorio sarebbero risultati un'arma fondamentale per mappare i malati, arginare i contagi e circoscriverli. E dunque avrebbero dovuto attezzare già allora i nosocomi, avrebbero dovuto bussare ai laboratori privati del Paese per tenerli pronti a riconvertirsi alle analisi dei tamponi e sarebbero dovuti andare a cercare le attrezzature e i reagenti necessari ai test prima che diventassero merce rara. Come Sebastiano, si sarebbero dovuti preparare all'eventuale tsunami.
Oggi si parla di Fase 2 ma molti studiosi avvertono: è la Fase 2 per quanto riguarda l'allentamento di alcune misure sociali restrittive, non è la Fase 2 del virus (come ci ha spiegato Piergiuseppe Pelicci, direttore della ricerca dell'Istituto Europeo di Oncologia). "il virus è ancora nella Fase 1 e ci vuole niente per ritrovarsi punto e a capo".
Chiedono più tamponi per presidiare il territorio e per individuare gli asintomatici, più test sierologici per capire come funziona l'immunizzazione dal Covid19. Chiedono che si sia imparata la lezione, chiedono che stavolta si giochi di anticipo, chiedono quello che, tranne poche eccezioni, non è stato fatto nella Fase 1.