I dati parlano chiaro: ormai da almeno 6 o 7 anni il costo per megawattora delle energie rinnovabili è più basso rispetto a quello delle fonti fossili tradizionali. Il costo del solare negli ultimi 10 anni è sceso del 90%, grazie alle economie di scala nella produzione dei pannelli, ma anche grazie agli sviluppi tecnologici che hanno reso i moduli sempre più efficienti.
Al contrario, nell'ultima decade, il costo di produzione dell'energia da fonti tradizionali è rimasto sostanzialmente invariato - al netto delle questioni di geopolitica: le tecnologie per l'estrazione, il trasporto e la raffinazione non hanno visto particolari evoluzioni che avrebbero potuto contribuire a una riduzione dei prezzi. Anzi, negli anni il costo di alcune materie prime fossili è aumentato, e recentemente più che mai, a causa di difficoltà nell'approvvigionamento e altri fattori, come guerre e congiunture geopolitiche sfavorevoli.
La domanda, quindi, sorge spontanea: perché il mondo è ancora così tanto dipendente da gas, petrolio e carbone?
Più Green, ma non abbastanza. In realtà qualcosa sta succedendo, anche se molto lentamente. Nel 2019 il 72% della nuova capacità energetica installata a livello mondiale proveniva da fonti rinnovabili e negli ultimi 20 anni la quota di energia proveniente da fonti non fossili è addirittura triplicata.
Si tratta però di numeri ancora piccoli, che non riescono ad aver un impatto significativo sulle emissioni complessive di CO2. Anche perché, secondo le stime del dipartimento americano per l'energia, tra il 2000 e il 2020 è più che raddoppiato l'utilizzo di gas naturale, che pur avendo emissioni del 60% più basse rispetto a carbone o petrolio, non può certo essere considerato una fonte energetica a impatto zero.
Cambiare costa. Da cosa è causata questa resistenza nella migrazione verso le rinnovabili? Il problema è principalmente legato ai costi del cambiamento. Perché se è vero che la realizzazione di un nuovo impianto a rinnovabili è più conveniente rispetto alla costruzione di una centrale di vecchio tipo, questo non vale quando si parla di riconversione. Modificare una centrale a carbone è anti-economico, e questo spinge le grandi aziende produttrici di energia a non voler investire nella riconversione.
Come spiega Ashley Langer su Popular Science, i paesi produttori di energia, Stati Uniti in testa, si trovano in una condizione di lock-in energetico. I vecchi impianti a combustibile fossile sono stati ormai completamente ammortizzati e il costo marginale per la produzione di un'unità addizionale di energia è praticamente prossimo al costo del combustibile.
Al contrario il costo di produzione della stessa unità di energia in un impianto a rinnovabili è, nell'immediato, altissimo perchè sconta le spese per la realizzazione della nuova centrale. È ovvio che si tratta di un ragionamento miope, ma soddisfa le aspettattive degli investitori, il cui obiettivo è quello di massimizzare i profitti derivanti dalle loro azioni, legati alla produzione energetica tradizionale.
Questioni elettorali. Non solo: i contratti che legano le compagnie minerarie, che forniscono il combustibile fossile, con le i produttori di energia, hanno solitamente durate lunghissime e garantiscono migliaia di posti di lavoro. Sono insomma equilibri sociali ed economici molto delicati, ai quali nessun governante mette mano volentieri.
Ma la tecnologia potrebbe ancora una volta venirci incontro: secondo le analisi, il lifetime cost per megawattora, cioè il costo calcolato sull'intero ciclo di vita dell'impianto, si sta assessando attorno ai 30 dollari, contro i 41 necessari per aumentare la capacità di un impianto tradizionale esistente. È chiaro quindi che un ruolo determinante nella transizione energetica lo giocheranno i governi, per esempio favorendo con regimi fiscali vantaggiosi la realizzazione di impianti di green, l'assunzione di personale all'interno di queste strutture e la ricollocazione nel mercato del lavoro di coloro che sono attualmente impiegati nel settore dell'energia tradizionale.