Alle ore 15 del 4 novembre 1918 l'armistizio firmato a Villa Giusti (Padova) sancì la fine della Prima guerra mondiale. La battaglia di Vittorio Veneto, che portò alla resa dell'esercito austro-ungarico, rappresentò - e rappresenta ancora oggi - la grande rivincita dopo la disfatta di Caporetto. Anni dopo Indro Montanelli la definì "una ritirata che abbiamo disordinato e confuso", ma se anche avesse avuto ragione a sminuirla in tal modo, per gli italiani la battaglia di Vittorio Veneto era la rivincita dopo Caporetto, il riscatto nei confronti di chi diceva che l'esercito regio era incapace di battersi.
L'ultimo scontro degli italiani con l'esercito austro-ungarico cominciò il 24 ottobre 1918: a un anno preciso dalla bruciante sconfitta ascritta a Luigi Cadorna, il generale Armando Diaz, che lo aveva sostituito al comando, diede il via ai combattimenti sul Piave e sul Monte Grappa.
Vittorio Veneto, la cittadina veneta che diede il nome alla battaglia, era solo uno degli obiettivi strategici (forse anche il principale) del piano elaborato dal comando italiano. Diaz, che aveva rimandato a lungo lo scontro temendo una nuova Caporetto, fu costretto ad agire quando si seppe che il 4 ottobre le potenze centrali avevano inviato una richiesta di armistizio al presidente degli Stati Uniti, Woodrow Wilson.
"Tra l'inazione e la sconfitta, preferisco la sconfitta. Si muova!", gli aveva telegrafato snervato il presidente del Consiglio, Vittorio Emanuele Orlando. Il motivo era semplice: se gli italiani non si fossero mossi dalle loro trincee prima della resa del nemico, probabilmente sarebbe sfumata l'acquisizione di quei territori (il Trentino, il Tirolo meridionale, la Venezia Giulia, parte della Dalmazia e la penisola istriana con l'esclusione di Fiume) che nel 1915 erano stati promessi all'Italia col Patto di Londra in cambio del suo ingresso in guerra.
Dopo alcuni giorni di duri combattimenti l'esercito italiano riuscì ad attraversare su ponti di barche il Piave, reso gonfio e impetuoso dalle piogge, e a incalzare il nemico ormai allo stremo e praticamente già in fuga verso i confini dell'impero, liberando così le zone occupate.
L'armistizio firmato a Villa Giusti sancì la fine delle ostilità: il bollettino della vittoria, esposto nelle caserme e affisso ai muri delle scuole, oltre a ingigantire le forze nemiche e a minimizzare il contributo degli Alleati (che, a onor del vero, parteciparono agli scontri con tre divisioni britanniche, due francesi e una di volontari cechi), diventò una specie di leggenda nazionale.
E per quanto gli Alleati tentassero di sminuirla (ancora oggi gli storici anglosassoni assegnano un ruolo di secondo piano alla battaglia di Vittorio Veneto), il generale Erich Ludendorff, nelle sue memorie, ammise che quella vittoria aveva avuto una notevole importanza storica: se Vienna non fosse crollata, sosteneva, la Germania avrebbe potuto continuare la guerra almeno fino alla primavera successiva, evitando l'umiliante armistizio dell'11 novembre con gli Alleati.
La fine anticipata del conflitto ebbe anche un'altra importante conseguenza: migliaia di vite risparmiate al fronte. Lo sapevano bene i soldati italiani che, ripreso un po' di buonumore, commentarono il loro successo con la solita autoironia nostrana: "Proprio quando avevamo imparato a farla, la guerra è finita!".
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Articolo tratto da "La battaglia finale", di Maria Leonarda Leone, su Focus Storia (ed. Collection, Prima guerra mondiale).