La storia della mafia è anche quella delle carriere criminali di alcuni boss che hanno segnato l'espansione di Cosa Nostra, in Italia e negli Stati Uniti.
Joe Masseria, the boss
In America lo chiamavo Joe Masseria, o "Joe the boss", ma il suo vero nome era Giuseppe Masseria. Originario di Castellammare del golfo, in provincia di Trapani, a 43 anni, si guadagnò un appellativo degno di un gangster: l'uomo che può schivare le pallottole, in memoria di un attentato mafioso da cui uscì miracolosamente indenne, cavandosela con solo due fori di proiettile sul cappello di paglia.
Eliminato. Dal 1920 comandò la banda Morello, uno dei clan più potenti a New York. A ordinare il suo omicidio 11 anni dopo, nel 1931, fu il boss Lucky Luciano, durante la guerra di mafia castellammarese, il conflitto italo-americano per la conquista della leadership combattuta, a New York, tra la famiglia dei Maranzano e quella dei Masseria.
Joe Valachi, l'inventore di Cosa Nostra
Joseph Valachi fu il primo grande pentito, colui che parlò pubblicamente dell'esistenza della mafia e la definì con il termine "Cosa Nostra". Originario della Romania, visse a New York a diretto contatto con la vita delle cosche (era l'autista di Gaetano Reina, del potente clan di Joe Masseria) e prese parte alla guerra di mafia promossa da Joe Masseria, Vito Genovese e Lucky Luciano contro la rivale cosca napoletana.
In regola. Le sue confessioni aiutarono a ricostruire l'organigramma della mafia e a comprendere meglio le regole che la governavano. Morì per un arresto cardiaco, dopo un tentativo di suicidio, nel 1971. La sua storia ispirò il personaggio di Frankie Pentangeli nel film Il padrino II.
Vito Genovese, il lanciatore di monete
Boss dell'omonima famiglia, Vito Genovese, dopo essere emigrato in America nel 1913, iniziò la sua carriera criminale al termine della Prima guerra mondiale lavorando al servizio di Joe Masseria, con boss del calibro di Lucky Luciano, Meyer Lansky e Frank Costello. Ritornò in Italia a 40 anni, nel 1937. In occasione dell'occupazione militare americana fece l'interprete del colonnello Poletti dell'US Army. Durante questo periodo risiedette nella regione di Nola (in provincia di Napoli) dove è ancora vivo il ricordo dei suoi "missilia", il lancio di monete d'argento alla folla. Non solo: si narra fosse solito prolungare i periodi di festa del suo paese natale (Tufino, in provincia di Napoli) finanziando la festa a sue spese.
Mecenate. Le cronache parlano anche di una grande generosità dimostrata verso la chiesa del suo paese che ristrutturò e omaggiò di due vasi di epoca Ming che valevano più di tutto il complesso. Fu incarcerato nel 1959 e morì in prigione dieci anni dopo.
Luciano Liggio, "la primula rossa"
Soprannominato dagli inquirenti "la primula rossa", il corleonese Lucianeddu Liggio, ancora giovane prese il posto del capo mafia Michele Navarra e s'impose a Palermo, collaborando con Salvatore Riina, Calogero Bagarella e Bernardo Provenzano. In breve tempo conquistò i mercati illegali e si arricchì sfruttando le opere di edilizia urbana, pubblica e privata e usufruendo degli appoggi di Vito Ciancimino, in quegli anni assessore e sindaco di Palermo. Accusato dell'omicidio del sindacalista Placido Rizzotto (1948) e del capo mafia di Corleone Michele Navarra (1958), fu arrestato la prima volta il 14 maggio del 1964.
Capo mafia, a chi? Assolto per insufficienza di prove prima a Catanzaro (1968) e poi a Bari (1969), uccise nel 1971 il procuratore capo di Palermo Pietro Scaglione. Fu infine arrestato a Milano il 16 maggio 1974 e finì in carcere. A Enzo Biagi che lo intervistò, disse: "Io sono stato considerato un capomafia e non è vero, fandonie. Se poi esiste non lo so". Morì in carcere per un arresto cardiaco il 15 novembre 1993.
Bernardo Provenzano, il latitante
La sua latitanza durò 43 anni, così a lungo che per molto tempo fu considerato vittima della lupara bianca. Il suo nascondiglio fu trovato solo nella primavera del 2006 quando si scoprì che il super boss Bernardo Provenzano aveva il suo rifugio in una masseria del Corleonese, da dove comunicava attraverso i famosi "pizzini", bigliettini di carta con cui dava ordine ai suoi affiliati. Iniziò la sua carriera negli Anni '50, insieme a Salvatore Riina, diventando il più fidato luogotenente di Luciano Liggio, allora capo di Cosa Nostra proprio nel Corleonese. Di lui Liggio disse: "Spara come un Dio, ma ha il cervello di una gallina". Approdò ai vertici di Cosa Nostra all'inizio degli Anni '80, dopo avere fatto uccidere tutti i rivali.
Piovra. Ma se per molto tempo è stato considerato solo un killer senza scrupoli, nel corso degli anni sono emerse anche le sue responsabilità nell'organizzazione del riciclaggio del denaro sporco. E non solo: suoi stretti collaboratori hanno portato alla luce anche l'influenza avuta nella gestione degli appalti illegali e i suoi contatti con il mondo politico.
Calogero Vizzini, il boss sindaco
Capo della mafia siciliana Calogero Vizzini, Don Calò, operò soprattutto nel periodo dell'occupazione della Sicilia da parte delle truppe alleate, durante la seconda guerra mondiale. "Uomo d'onore" temuto e rispettato da tutti, fu imposto come sindaco di Villalba (provincia di Caltanisetta) dall'Amgot, il governo militare statunitense dei territori occupati, probabilmente per compensarlo dell'aiuto che la Mafia siciliana, e lui in particolare, diedero alla cacciata dei nazifascisti dall'isola. Nel dopoguerra favorì il rilascio di molti boss mafiosi incarcerati, o al confino, contribuendo alla rinascita della nuova mafia.
Caramelle da uno sconosciuto. A Palermo fondò la Fabbrica di confetti e dolciumi insieme a Lucky Luciano. La fabbrica, però fu immediatamente chiusa per un articolo comparso su un giornale in cui si sottolineava la possibilità che la società potesse nascondere traffici di eroina. Don Calò morì di vecchiaia a 77 anni, nel 1954, lasciando un patrimonio valutato alcuni miliardi, accumulati in meno di 10 anni.