Storia

Le virtù della pipì (e non solo) al tempo dei romani

Chi le usava per sbiancare gli abiti e chi per curare gli animali. Urine e feci al tempo di romani erano così utili e preziose che la loro raccolta venne persino tassata.

Urine e feci? Al tempo dei romani andavano a ruba: adoperate per la pulizia, la conciatura delle pelli, come concime e persino come cura per alcune malattie. Tutti usi che ci fanno un po' ribrezzo. Eppure...

La scienza ci dice che i batteri trasformano l’urea presente nell’urina in ammoniaca: il poeta romano Catullo (54 a.C.) non poteva saperlo, ma conosceva senz'altro il potere sbiancante dell'urina… sui denti, di cui parla espressamente in uno dei suoi Carmina, segno che era una prassi adottata dai suoi contemporanei.

L'ammoniaca nelle urine veniva usata anche per sbiancare le toghe, in verità: le toghe venivano raccolte in grandi tini colmi di urina e gli uomini vi saltavano sopra; poi usavano la cenere per contribuire a sciogliere lo sporco accumulato sui tessuti, realizzando, di fatto, una sorta di precursore della lavatrice.

Per piante e animali. L'urina contiene inoltre azoto e fosforo, entrambi utili alla coltivazione di piante. E Columella, scrittore romano esperto di agricoltura (4 - 70 d.C.) racconta come la pipì fosse particolarmente utile alla coltivazione dei melograni, fino a renderli più succosi e saporiti.

Sempre Columella consigliava l'uso di urina umana anche come terapia veterinaria: cura per le pecore con problemi biliari e polmonari, ma anche per le api malate.

Non è tutto. L'autorevole Smithsonian Magazine racconta che sempre al tempo dei romani l'urina era così preziosa da essere raccolta dagli orinatoi pubblici e poi venduta. Per far che? Bè, per esempio per lavorare le pelli: un lungo ammollo nelle urine pare che aiutasse a rimuovere i peli dalle pelle, che poi veniva passata in feci di animale in modo che i batteri la ammorbidissero, rendendola più… pregiata.

E poi naturalmente c'è l'uso fertilizzante delle feci: i romani le adoperavano volentieri per nutrire il terreno dei loro giardini.

Pecunia non olet. E che le deiezioni fossero largamente utilizzate a quel tempo, lo dimostra la storia della celebre vectigal urinae, la tassa sull’urina, che i conciatori e i fullones (coloro che lavoravano la lana) furono costretti a pagare sulla pipì raccolta nelle latrine pubbliche.

La impose l'imperatore Vespasiano, che scelse di fare cassa, conscio del vasto utilizzo dell'urina come sbiancante. E al figlio Tito, che lo aveva rimproverato per la decisione, Vespasiano mostrò una moneta, riscossa proprio il primo giorno in cui era in vigore la tassa, pronunciando la ormai famosa frase Pecunia non olet, ovvero "il denaro non puzza".

E che la sua idea ebbe successo lo dimostra il fatto che le toilette pubbliche in seguito presero il suo nome: vespasiani.

4 aprile 2016 Eugenio Spagnuolo
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