Un mostro marino alato, Scilla, con corpo femminile dalla vita in su e la parte inferiore a forma di pesce con due code: era un demone, ma nel senso buono del termine, perché nell'immaginario degli Etruschi traghettava gentilmente sul proprio dorso le anime nell'aldilà. Anime che venivano poi prese in consegna da un altro demone femminile, Vanth, pure alato, che con una fiaccola le orientava nel buio. La Tomba dei Demoni alati, nella necropoli di Sovana (Grosseto) attira l'attenzione oltre che per queste rappresentazioni scultoree anche per i leoni scolpiti, di guardia, caricati un tempo di poteri magici da potenti sacerdoti.
Questa è solo una delle molte decine di tombe finora ritrovate: ne sono state scoperte e aperte al pubblico altre relative al complesso della Tomba dei Leoni. Sovana, anche se poco conosciuta, è una delle più grandi necropoli etrusche. Scavata nel tufo, era stata concepita come una città dei morti, con vie e piazzette, su un colle davanti alla città dei vivi, separata da essa dalle acque di un torrente. Il luogo ideale oggi per riscoprire i veri etruschi, al netto della romanizzazione, che qui arrivò più tardi, e delle maldicenze dei Greci, troppo patriarcali e "filosofi" per approvare una società dove le donne erano emancipate e il pensiero magico conviveva con abilità marinare e avanzate tecniche agricole.
Furono infatti gli Etruschi i pionieri dell'agricoltura e dell'urbanizzazione nell'Italia antica, i padroni indiscussi del Mediterraneo e quindi i primi attori della globalizzazione attraverso il commercio. Andava loro talmente bene la vita, che avevano una visione ottimistica anche della morte. E le necropoli lo dimostrano.
Tranquillo aldilà. «Se le necropoli erano concepite come città dei defunti», spiega l'archeologa Elisabetta Santarelli, che ci guida nel tour alla scoperta di Sovana, «le tombe erano le loro case, dove i corredi garantivano i comfort nella vita ultraterrena. Un concetto mutuato dagli Egizi con i quali gli Etruschi commerciavano». Ma anche nella fase più arcaica, denominata Villanoviano (X-VIII sec. a.C.), quella della cremazione, emergeva il concetto di dimora domestica: «Le urne cinerarie erano fatte "a capanna" partendo dal principio che non importava il corpo perché a sopravvivere era l'anima».
Dalle tombe monumentali dei prìncipi fino alle cosiddette tombe a dado per persone via via più comuni, a Sovana l'ambiente domestico era ricreato scavandone le forme nel tufo.
Se invece ci spostiamo a Tarquinia (Viterbo), dove le tombe furono ricavate in una roccia molto dura, sono il disegno e il colore a caratterizzare gli ambienti, dai soffitti, travati o a cassettoni, alle colonne, dalle tende ai mobili e alle porte. Il defunto è ritratto con un uovo in mano, simbolo di rinascita dopo la morte. A fare da guardia alle tombe una cospicua varietà di felini africani. «La presenza dei delfini che si tuffano nel mare simboleggia, invece, l'entrata in una nuova dimensione dove non c'è più la necessità di respirare, ma non si rinuncia ai piaceri e alla quotidianità», fa notare Santarelli: «tutti i personaggi sono disegnati di profilo, gli uomini appaiono scuri e le donne di colore niveo, proprio come nell'antico Egitto».
Parità di genere. Ma a differenza di Greci e Romani, Cartaginesi ed Egizi, la società etrusca aveva grande considerazione per le donne. Nelle tombe etrusche (da Tarquinia a Chiusi, a Cerveteri - dov'è presente il più antico ciclo pittorico d'Italia), le donne sono ritratte mentre partecipano a banchetti, a giochi e spettacoli. «Gli Etruschi mantenevano il nome gentilizio della madre accanto a quello del padre», sottolinea Santarelli: «contrariamente alle donne romane, chiamate solo con la gens di appartenenza, ovvero della famiglia - come per Tullia prima e Tullia seconda oppure Iulia maggiore e Iulia minore. Le donne etrusche avevano invece un nome proprio - Velelia, Ramutha, Thania, Larthia; erano titolari di attività commerciali, probabilmente viaggiavano e si muovevano in autonomia, assistevano ai giochi sportivi e ai banchetti; accedevano a cariche sacerdotali e forse erano anche magistrati. Fatto davvero singolare nelle antiche civiltà».
I migliori vaticini. Un altro primato degli Etruschi riguardava l'arte di prevedere il futuro. Interpretando il volo degli uccelli e la caduta dei fulmini, e, in modo davvero esclusivo nella ricca offerta di responsi dell'antichità, leggendo il fegato degli animali, in particolare degli ovini: il fegato, come dimostra un modello bronzeo ritrovato a Piacenza, era concettualmente diviso in 40 quadranti, ognuno dei quali rifletteva una porzione di cielo presieduta da una particolare divinità. Una volta che i Romani divennero i dominatori, continuarono ad avere in massima considerazione gli aruspici etruschi, i sacerdoti esperti appunto nella lettura divinatoria delle viscere degli animali.
Dèi originali. «I veri Etruschi li conosciamo anche attraverso le loro divinità», spiega ancora Santarelli: «che non erano solo versioni locali di quelle greche e romane, come spesso si pensa.
Tagete, per esempio, il dio che rivelò l'arte di predire il futuro, era esclusivo degli Etruschi. Cosi come la dea della Luna, Losna, importante per i cicli agrari, o il dio della confederazione etrusca delle 12 città stato, Voltumna.» Il dio della vegetazione, della vitalità e della gioia, Fufluns, ricorda il greco Dioniso (Bacco per i Romani), ma ha caratteristiche anche più ampie. E il dio della foresta, Selvans, fu il predecessore del romano Silvano. La triade capitolina Giove, Giunone e Minerva, deriva da un'idea degli etruschi - che i romani mutuarono - composta da Tinia, Uni e Menvra.
Un idioma speciale. La loro lingua è un altro elemento di unicità nel contesto occidentale: non di origine indoeuropea, fa pensare che abbia resistito alle invasioni della cultura Kurgan, considerata portatrice della lingua proto indoeuropea. Potrebbe perciò avere avuto ragione lo storico greco Erodoto (484-425 a.C.) nel considerare gli Etruschi originari della Lidia (bassa Anatolia, oggi Turchia). Del resto, sono ormai un punto fermo le analisi genetiche condotte da Alberto Piazza, dell'Università di Torino, riportate dallo scienziato alla European Human Genetics Conference del 2007: confrontando il dna di persone viventi della zona di Volterra e altre città di origine etrusca con gli abitanti dell'isola di Lemnos, Piazza ha dimostrato una grande affinità genetica fra le due popolazione. L'isola di Lemnos, dove si parlava una lingua non indoeuropea simile all'etrusco, si trova davanti all'Anatolia, e secondo Erodoto si erano rifugiati lì dei profughi provenienti dalla Lidia, colpita da una carestia.
La lingua etrusca acquisì forma scritta adattando i propri fonemi alle lettere greche e fenicie, ribaltandole, in favore di una scrittura che andasse, contrariamente alla nostra, da destra a sinistra, e che in un secondo tempo divenne bustrofedica, cioè cambiava direzione a ogni fine riga.
Morte crudele. Le vicende storiche degli Etruschi si fecero più complicate a partire dal 474 a.C., data della sconfitta a Cuma ad opera della flotta di Siracusa, che tolse loro il predominio sul Mediterraneo e portò all'embargo dei loro commerci. La crisi ebbe riflessi anche sulla loro concezione dell'aldilà. Da "casalingo" e spensierato, l'aldilà diventa una sorta di Purgatorio per una fine sempre più misteriosa. Le anime venivano trasportate non più da una super sirena gentile, ma dal torvo Charun.
A dispetto dell'affinità del nome, Charun non era il Caronte dei Romani (il Charon dei Greci), che a bordo di una barca traghettava i defunti, ma un demone alato, con carnagione bluastra, naso d'avvoltoio e orecchie aguzze, che accompagnava il defunto su carro, a piedi o a cavallo nel suo ultimo viaggio, e che poi gli piantava un chiodo in fronte per fissarne il corpo, ormai inutile, e fare uscire l'anima.
Questa veniva presa in consegna da Tuchulcha, ali e becco da rapace, orecchie d'asino, pelle giallastra, due serpenti barbuti fra le mani, che la sottoponeva a una fila di bastonate e con un falcetto la "potava" (o spurgava) di tutti i suoi peccati. Poi l'anima, come indicano le rappresentazioni pittoriche di alcune tombe di Tarquinia, superava la porta a becco di civetta da cui non si vedeva più nulla, a sottolineare il mistero. Tuchulcha doveva proprio avere una cattiva fama se ancora oggi nel Lazio è rimasta l'espressione "chulcare di botte".
È un fatto che con la romanizzazione, dal III al I secolo a.C., le pitture etrusche rappresentano situazioni più cruente anche nel mostrare i giochi funebri, con vittime sacrificali e i corredi, più poveri, si allineano alla visione greco-romana dell'aldilà, dove le anime si aggirano abuliche e tristi, nostalgiche della vita terrena. Gli Etruschi restituiscono così anche un paradigma antropologico: quando una società è opulenta e libera, si può permettere un'idea della morte meno negativa. Al contrario, quando è in declino e dominata, la paura della fine e dell'ignoto prende il sopravvento.