Hugh Hefner, il fondatore di Playboy, la rivista erotica più conosciuta del mondo, è morto mercoledì 27 settembre a 91 anni mercoledì. Hefner sarebbe morto di vecchiaia, nella sua casa vicino a Beverly Hills, la famosa “Playboy Mansion”, circondato dall'affetto dei suoi cari.
La sua storia è indissolubilmente legata alla sua creatura, la rivista Playboy, fondata 64 anni fa. Era il 1953, Hugh Hefner, allora 27enne, era un giovane di Chicago, laureato in psicologia, e così presentava la sua creatura nel primo editoriale: “Vogliamo chiarire fin dall’inizio che non siamo un magazine per famiglie. Se sei la sorella, la moglie o la suocera di un uomo, e hai preso questa rivista per sbaglio, passala a lui e torna al tuo giornale femminile”.
Cresciuto in un ambiente conservatore e protestante, in cui non si deve bere, fumare o parlare di sesso, fu l’artefice di una rivista destinata a rivoluzionare il costume e la sessualità: Playboy.
Dal cervo al coniglio. Inizialmente si sarebbe dovuta chiamare Stag Party, ossia “festa di addio al celibato”, ma il già esistente magazine Stag minacciò una causa e così si dovette trovare un altro nome. A causa di ciò dal secondo numero il logo, un cervo in vestaglia disegnato dal vignettista Arv Miller, venne rimpiazzato dal profilo della testa di un coniglio con un papillon da smoking, disegnato dal grafico Art Paul. La scelta ricadde sul coniglio per alludere a un certo modo, giocoso e ironico, di vedere il sesso. Ma non fu certo la grafica a stimolare l’interesse dei lettori.
Bellezze da appendere. Il primo numero, di 44 pagine, presentava un racconto su Sherlock Holmes, un articolo sull’architettura moderna e uno scatto osé della “reginetta” del mese (solo in seguito si userà il termine playmate): Marilyn Monroe.
La foto dell’attrice distesa su un lenzuolo di raso rosso fu scelta perché costava poco. Era stata infatti ceduta da una casa editrice di calendari che temeva una denuncia per oscenità. Fu il trampolino di lancio per il magazine: in pochi giorni Playboy vendette oltre 50mila copie. E pensare che, temendo vendite disastrose, Hefner non aveva messo in copertina né la data né il numero. Preferiva non sbilanciarsi sull’uscita del successivo.
Porno soft. Con quell’immagine di Marilyn, Hefner aveva inventato il porno soft. «La novità non sta nell’uso del nudo», spiega Beatriz Preciado nel libro Pornotopia. Playboy: architettura e sessualità (Fandango), «ma nell’abbinamento inedito del corpo con il design e il colore, e soprattutto nell’aver disposto il nudo in una pagina doppia pieghevole, che fa della rivista solo un supporto».
E pensare che il colpo di genio Hefner l’aveva avuto in guerra: durante l’esperienza al fronte, nel secondo conflitto mondiale, aveva assistito al successo tra i militari delle cartoline con le pin up, ragazze in pose provocanti da appendere al muro (to pin in inglese).
Forse proprio allora ebbe l’idea di “industrializzare” (editorialmente) il sesso, con l’aggiunta in ogni numero di un paginone centrale, da staccare e appendere. Molte sono le star che si sono spogliate per Playboy: Brigitte Bardot, Jayne Mansfield, Kim Novak, Raquel Welch, Ursula Andress, Anita Ekberg e, in tempi più recenti, Kim Basinger e Kate Moss.
Ospiti illustri. Ma Playboy non ospitava solo belle ragazze, vi si potevano trovare anche articoli di costume, racconti e reportage firmati da autori come Ian Fleming (il padre di James Bond), Arthur C. Clarke (autore del romanzo 2001 Odissea nello spazio), Alberto Moravia, Norman Mailer, Vladimir Nabokov, Gabriel García Márquez, Jack Kerouac e tanti altri. La rivista ospitò anche l’ultimo scritto di Martin Luther King, pubblicato postumo e curato dalla moglie.
Il successo fu incredibile, dopo quasi 20 anni di pubblicazioni nel 1972 Playboy toccò la cifra record di 7 milioni di copie vendute. Il clamore fu tale che nel 1976, attirato dal grande pubblico del magazine, Jimmy Carter, candidato alla presidenza Usa, decise di rilasciare un’intervista al mensile in cui confessava di aver tradito la moglie, ma solo con il pensiero. L’intervista fu un boomerang, Carter fu criticato e rischiò l’elezione. Ma l’impatto maggiore della rivista, che illustrava gli agi e i piaceri della società consumista durante il boom economico, si registrò soprattutto nell’ambito dello stile di vita, fino a divenire specchio di un’epoca.
«Il modello non era più l’uomo che va ogni giorno in ufficio per portare a casa uno stipendio e mantenere moglie e figli», afferma Elizabeth Fraterrigo, docente di Storia alla Loyola University di Chicago e autrice del libro Playboy and the making of the good life in modern America, «ma l’antesignano dell’odierno metrosexual (termine degli Anni ’90 che indica un uomo, eterosessuale e metropolitano, molto curato, ndr): un lavoratore che si prende cura di sé e può concedersi sfizi, piacevoli acquisti, capricci».
Non solo, la rivista (e il suo fondatore) si inserì nella battaglia contro le limitazioni imposte da una certa mentalità al costume femminile (vedi riquadro nella pagina a sinistra). Oltre ad anticipare, secondo alcuni sociologi, fenomeni importanti come la pop-art: senza Hefner non ci sarebbe stato Andy Warhol e soprattutto la sua Factory (lo spazio dedicato alla creatività collettiva dei giovani newyorkesi) che avrebbe avuto quale illustre precedente proprio la “casa di Playboy” (la Playboy Mansion).
La prima Playboy Mansion fu fondata negli Anni ’50 a Chicago. Ma a far clamore fu la seconda, a Los Angeles, degli Anni ’70: grazie alle sue vetrate, mostrava giorno e notte gli interni (compresa una Porsche parcheggiata in vetrina). L’eccentrico Hefner diventò il protagonista di questa specie di Grande fratello ante litteram, dal momento che cominciò a lavorare nel suo studio in vestaglia e a riposare su un letto girevole, rigorosamente a vista, sotto gli occhi di passanti e curiosi. Famosissime erano anche le feste con centinaia di conigliette che duravano intere notti.
Hefner ormai era diventato milionario: la sua azienda non si occupava più soltanto di una rivista, per quanto seguita, ma anche di cinema, produzione digitale, vestiti e gioielli a marchio Playboy, discoteche, casino, resort in tutti gli Stati Uniti.
Il tramonto di un mito. Eppure proprio negli Anni ’70 cominciò il declino, a causa della nascita di magazine concorrenti: Penthouse e Hustler. A questo punto, a fronte di una perdita di 2 milioni e mezzo di copie in un solo anno, il 1973 (in Italia la rivista era arrivata l’anno prima), Playboy cominciò a imitare i rivali, virando sempre più verso il sesso esplicito.
Fu così che per la prima volta, nel paginone centrale del mese di giugno, apparve un nudo femminile frontale. Poi nel 1975 fu la volta di copertine che poco lasciavano all’immaginazione, in una si mostrava una coppia lesbica e in un’altra la protagonista appariva con una mano negli slip.
Perfino gli inserzionisti, abituati alle provocazioni, si scandalizzarono. Ma, pubblicità a parte, anche dal punto di vista del pubblico, la svolta editoriale non rese molto. E da allora fino ai nostri giorni il calo di vendite della rivista erotica per eccellenza non si è più arrestato. Playboy con il tempo ha perso anche la capacità, che aveva avuto negli anni precedenti, di influenzare costume e società occidentali.
Eppure, nonostante il calo di vendite, è ancora uno dei periodici più diffusi, con 3 milioni di lettori mensili negli Stati Uniti e 4,5 milioni nel resto del mondo. Inclusi gli italiani, visto che da noi Playboy, dopo la chiusura del 2003, è tornato in vendita dal 2008.
Achille Prudenzi per Focus Storia