Che cos'è il populismo? La risposta cambia a seconda che si rivolga la domanda a uno storico o a un politologo, mentre i politici, a seconda di quanto si sentano gratificati o insultati dall'essere chiamati "populisti", prendono, un po' dagli uni e un po' dagli altri, da quelle stesse risposte quello che fa comodo a loro.
Per gli storici, il populismo propriamente detto è quello nato in Russia nella seconda metà dell'Ottocento. Il narodnicestvo (da narod, "popolo" in russo) era un movimento di giovani studenti e intellettuali (i narodniki, "populisti") che volevano "andare verso il popolo": aprivano scuole nei villaggi di una Russia ancora feudale, cercando di diffondere tra i contadini l'istruzione e la consapevolezza di essere sfruttati. I populisti russi avevano del popolo un'idea romantica e vedevano i contadini come una grande forza rivoluzionaria che aspettava soltanto di essere svegliata per rovesciare il regime zarista.
Si sbagliavano, perché la rivoluzione la fecero poi gli operai delle fabbriche, ma alcuni di loro, pensando di dare una mano alla Storia, passarono dalla teoria alla pratica e nel 1881 organizzarono l'assassinio dello zar Alessandro II.
Per i politologi, il populismo è invece una categoria dai confini vaghi e sfuggenti, che cambia a seconda di epoche e contesti e sulla quale non tutti concordano. L'Enciclopedia del pensiero politico Laterza lo definisce così: "Atteggiamento politico favorevole al popolo, identificato nei ceti socio-economici più umili". «Il populismo», spiega nel libro Francesco Saverio Festa, docente di Storia della filosofia all'Università di Salerno, «considera il popolo depositario di tutte le virtù politiche e sociali. Si vuole adulare il popolo e difenderlo dai raggiri machiavellici dei ceti dominanti, avanzando proposte politiche atte a gratificare i desideri di rivalsa del popolo minuto, contrapponendolo alle élite». Da qui la diffidenza dei populisti verso tecnici ed esperti, giudicati asserviti alle élite, i famigerati "poteri forti".
... per difendere il popolo dai raggiri dei ceti dominanti...
I populisti sono tutti uguali? In politica i distinguo sono tutto. Il termine populismo, proprio perché vago, nel Novecento ha assunto sfumature di diversi colori, che gli storici del pensiero politico hanno cercato di catalogare.
1. Il nazionalpopulismo è un mix di nazionalismo e militarismo che comprende l'intera gamma del nero, dal nazismo al fascismo. Include (ma non tutti sono d'accordo) anche il peronismo dell'argentino Juan Domingo Perón (1895-1974), che nel mondo diviso della Guerra fredda non voleva essere né capitalista né comunista, ma finì per essere conservatore e autoritario.
2. Il populismo rivoluzionario tende al rosso, ma è anch'esso autoritario e nazionalista.
I suoi antenati sono i giacobini di Robespierre, "l'avvocato del popolo" che nella Francia rivoluzionaria inventò il Terrore e i famigerati "tribunali del popolo" dove si processavano e ghigliottinavano i "nemici del popolo". Il suo volto novecentesco totalitario sono stati lo stalinismo e, per i loro detrattori, il castrismo e il "chavismo" che si rifà al presidente venezuelano Hugo Chavez (1954-2013).
3. Infine c'è il populismo democratico, che ha debuttato negli ultimi anni dell'Ottocento con l'effimero People's Party americano, pluralista all'interno, nazionalista e isolazionista in politica estera. Il People's Party aveva la sua base tra gli agricoltori dell'America profonda e i suoi nemici nel capitalismo industriale e finanziario e nelle élite progressiste. Quando negli Stati Uniti definiscono populist il presidente Donald Trump e il suo motto America first, alcuni storici d'Oltreoceano pensano a quel "partito del popolo" a stelle e strisce di oltre un secolo fa.
I populisti sono antidemocratici? Se il populismo si basa sulla volontà del popolo, perché in tanti si preoccupano per la sua avanzata? In fondo, la democrazia non è il "governo del popolo"?
Succede perché il populismo, come dimostra la storia del Novecento, più che democratico è plebiscitario.
La democrazia moderna, quella della Costituzione italiana per intenderci, è rappresentativa: prevede che il popolo eserciti sì la sovranità, ma attraverso rappresentanti eletti in parlamento per fare le leggi. È la "vecchia" democrazia liberale, nata per tutelare anche le opposizioni. Ma se c'è qualcosa che ha accomunato i populismi del Novecento, è stata proprio l'allergia alla democrazia liberale, considerata una tipica espressione dell'élite.
Il populismo, infatti, tende verso la "dittatura della maggioranza": il suo ideale è la democrazia diretta, che esprime la volontà popolare senza mediazioni. Più o meno come nell'Atene antica, dicono i populisti di oggi, soltanto con il Web o i referendum propositivi al posto dell'assemblea.
Funzionava così nell'antica Grecia? Non esattamente...
L'ecclesia (l'assemblea greca) che si riuniva nell'agorà ai tempi di Pericle (V secolo a.C.) non rappresentava tutti gli ateniesi, ma soltanto i cittadini liberi e maschi: 40.000 su una popolazione di 300.000 nell'Attica (il territorio della città). E soltanto 6.000 di quei 40.000, quasi tutti aristocratici, partecipavano alle assemblee: un concetto alquanto "ristretto" di popolo.
Vero è invece che Pericle incarna il modello del demagogo, il leader-tipo dei populisti moderni: il "conduttore" (agogos in greco antico) del popolo (demos). Aristotele considerava il demagogo causa di tutti i mali proprio perché imponeva l'egemonia dei ceti popolari (populismo doc, diremmo oggi) a scapito delle altre componenti della società.
Dall'antichità in poi, la lista dei demagoghi che hanno scalato il potere contando sul malcontento nei confronti dell'élite - salvo poi accordarsi con essa - è lunga.
Che cosa c'entra la post-verità? Per ottenere e conservare il potere, da sempre la politica usa gli strumenti della propaganda. Pericle fece largo uso di denaro pubblico per guadagnare consensi, abbellendo Atene e finanziando spettacoli teatrali che esaltavano i valori ateniesi: è alla sua propaganda "marmorea" che dobbiamo il Partenone. Cesare e Napoleone furono maestri nel creare consenso attorno alle loro figure, e i totalitarismi del Novecento hanno fatto della propaganda una macchina del consenso basata su censura e controllo dell'informazione.
Un punto fermo del populismo è proprio l'idea che l'élite controlli l'informazione per mantenere il popolo nell'ignoranza e dominarlo meglio.
È su questa idea che si basa l'ossessivo riferimento di Trump alle fake news: "non credete alla potente Cnn", twitta, "vi racconta solo falsità". Il populista del XXI secolo, del resto, non usa gli strumenti dell'informazione, basata sulla verifica dei dati e sul confronto tra le fonti, ma i mezzi della post-verità: notizie palesemente false o soltanto verosimili, non verificate anche se potrebbero esserlo facilmente. Sono le pseudo-notizie che confermano pregiudizi, rafforzano paure e alimentano preconcetti.
Secondo uno studio pubblicato sulla rivista Nature nel 2016 da Adam Kucharski, epidemiologo della London School of Hygiene & Tropical Medicine, le fake news si propagano nel Web seguendo schemi paragonabili a quelli delle epidemie. Così come una malattia può evolversi e modificarsi all'interno di una popolazione, allo stesso modo la pseudo-notizia (immagine, video o testo) si rafforza o si indebolisce a seconda del contesto in cui si trova. È il mondo parallelo della post-verità: un mondo dove far arrivare il messaggio al giusto destinatario conta più che far arrivare un messaggio giusto. Dove affermare conta più che dimostrare.