Storia

Seconda guerra mondiale: il Giappone si arrende ma non (tutti) i soldati giapponesi

Il peggior malinteso della Storia: il 2 settembre 1945, il Giappone firmò la resa ma non tutti i soldati capirono che la Seconda guerra mondiale era finita. Ecco le loro storie.

È stato probabilmente il più grande malinteso della Storia. Quando, il 2 settembre 1945, l'imperatore del Giappone Hirohito si rivolse al suo popolo annunciando la resa incondizionata, il suo discorso  -  a causa dei disturbi tecnici ma anche del linguaggio troppo sofisticato - non arrivò chiaro a tutta la popolazione. E così, per molti reparti militari giapponesi, la Seconda guerra mondiale non era affato finita; e la resistenza continuò, perfino fino agli anni Settanta. Ecco l'incredibile  storia dei soldati che rimasero nascosti nella giungla in Cina, in Manciuria e nelle isole del Pacifico, attraverso l'articolo "Soldati fantasma" di Aldo Bacci, tratto dagli archivi di Focus Storia.

Resa tardiva. I vestiti magari non li avevano più. Ma fucili oliati e funzionanti, la spada da ufficiale e pezzi di divisa, sì. Era questo ciò che portavano gli ultimi soldati giapponesi quando si sono arresi, negli anni Settanta. Non per tutti, infatti, la Seconda guerra mondiale è finita nell'estate 1945. Per molti militari del Sol Levante è durata ancora settimane, mesi, addirittura anni. Per il sergente Shoichi Yokoi la pace è arrivata nel 1972, per Hiroo Onoda e Teruo Nakamura nel 1974. Non potevano credere che il Giappone si fosse arreso e, siccome nessuno aveva impartito loro l'ordine di smettere di resistere, avevano continuato imperterriti la vita di guerriglieri della giungla.

I contingenti ribelli. Ma questi soldati irriducibili non furono casi isolati. Al momento della resa di Tokyo, gli americani stimarono che due milioni di militari giapponesi fossero ancora in armi fuori dell'arcipelago. I contingenti più grossi si trovavano in Cina e Manciuria, dove continuarono a combattere contro sovietici e cinesi. La maggior parte di loro si arrese nella seconda metà del 1945, ma 6mila soldati sull'isola di Bali si consegnarono nel febbraio 1946, e una divisione di 15mila uomini di stanza tra i monti della Manciuria si arrese nel dicembre 1949.

I "soldati fantasma". Nacquero fra i piccoli reparti rimasti nelle isole minori e nelle zone più impervie dei territori del Pacifico. Nella primavera del 1945, il Comando Supremo giapponese aveva impartito via radio l'ordine di resistere a oltranza. Già in quel momento non tutti erano in grado di captare il messaggio radio, ma furono ancora meno quelli che ricevettero la successiva comunicazione della resa.

Per cui non è poi così incredibile se, a guerra finita, per qualche anno si continuò ad assistere a vere e proprie piccole battaglie.

Nell'agosto del 1946, almeno 4mila giapponesi risultavano ancora in armi nelle Filippine, e il 20 gennaio di quell'anno vicino a Manila un battaglione statunitense-filippino si scontrò con 120 soldati nipponici armati: rimasero uccisi 72 giapponesi e 50 militari alleati. Ci furono altri scontri e rese, non solo nelle Filippine ma in molte altre isole, da Guam a Pelelieu a Guadalcanal.

I solitari. I casi singoli e di piccoli gruppi si protrassero per decenni. Nell'isola indonesiana di Morotai 15 soldati giapponesi continuarono a combattere fino al 1956. L'ultimo di loro fu ritrovato il 18 dicembre 1974: era il soldato semplice Teruo Nakamura, che consegnò alla polizia il suo fucile d'ordinanza, ben conservato in un panno intriso di olio e benzina, e 5 proiettili. È l'ultimo soldato fantasma riconosciuto, ma non il più famoso: pur essendo di cultura giapponese e arruolato nell'esercito del Sol Levante, era un indigeno Amis di Taiwan. Tokyo se la cavò pagandogli lo stipendio arretrato.

Da disertore... Ben altra sorte ebbero invece Shoichi Yokoi e Hiroo Onoda. Nel primo caso non fu una resa spontanea: il 24 gennaio 1972 fu catturato sull'isola di Guam da due pescatori ai quali per sfamarsi rubava i gamberetti dalle trappole. La sua è una storia particolare perché, nel 1944, quando gli americani conquistarono Guam, Shoichi Yokoi (che era solo un soldato semplice) con altri due o tre compagni rimase indietro, appartato rispetto alla guerra.

Così per vent'anni si nascosero nella giungla, vivendo di espedienti. Intorno al 1964 Yokoi restò solo, ma non per questo si convinse a tornare nel mondo, poiché temeva di essere considerato un disertore. Continuò a nascondersi in una buca-rifugio, vestendosi con fibra di ibisco e nutrendosi anche di corteccia degli alberi. Al momento della cattura conservava ancora un vecchio fucile Arisaka con poche munizioni e una bomba a mano arrugginita.

… A eroe. Al suo ritorno in patria fu accolto come un eroe. "È con molto imbarazzo che sono tornato vivo", dichiarò riferendosi all'esito del conflitto. Gli venne conferita la "Medaglia della grande Asia dell'Est", che pure era stata abolita dopo la guerra. Venne anche ricevuto dall'Imperatore, cui si rivolse affermando: "Maestà, sono ritornato. Sono profondamente dispiaciuto di non aver potuto servirla bene. La mia determinazione nel servirla non cambierà mai". Il ruolo di superstite gli piaceva.

Questione di onore. Ma nell'immaginario giapponese Yokoi venne presto soppiantato da Hiroo Onoda. Questi, ritrovato nel 1974, davvero non aveva voluto arrendersi per una questione di onore.

Per trent'anni si era nascosto nell'isola di Lubang, nelle Filippine. Il giovane tenente dell'intelligence giapponese aveva mantenuto la guida di una pattuglia di quattro uomini dopo che il 28 febbraio 1945 l'isola era stata riconquistata dagli americani.

Razionarono il riso, impararono a nutrirsi di cocco e banane, poi anche di bacche e di serpenti. Nel 1949 uno di loro si sfilò dal gruppo e si arrese. Gli altri continuarono a resistere, rubando cibo e vestiti ai locali e vivendo dei frutti della foresta. Nel 1954, in uno scontro a fuoco con una pattuglia filippina, morì il caporale Shoichi Shimada, e nel 1972 fu ucciso in combattimento anche l'ultimo compagno di Onoda, Kozuka Kinshichi. Ma Onoda continuava a non cedere.

Resistere a oltranza. Nulla, fino a quel giorno del 1974, l'aveva convinto che la sua nazione avesse davvero potuto arrendersi. Ci avevano provato in tanti, ma ogni volta aveva pensato che si trattasse di propaganda nemica. Non aveva dato retta al discorso per radio dell'imperatore Hirohito che chiedeva di "sopportare l'insopportabile", una voce che non aveva mai sentito prima e che parlava una lingua troppo sofisticata per essere davvero compresa a fondo. E non aveva creduto neanche ai volantini lanciati sull'isola nel 1952: li considerò una strategia americana.

Le spedizioni inviate da Tokyo a cercarlo fino al 1959 lo spinsero solo a nascondersi sempre più in profondità. Venne più volte dato per morto, ma sempre arrivava una nuova azione di guerriglia a fornire una puntuale smentita. Per lui, legatissimo al codice d'onore, contavano solamente gli ultimi ordini ricevuti: "Mantenere le posizioni, aspettare rinforzi. Non arrendersi. Categoricamente proibito togliersi la vita. Può richiedere tre anni, o cinque, ma in qualunque momento avverrà noi torneremo indietro per voi. Fino allora, finché avrai un soldato, dovrai continuare a guidarlo. Se è il caso, vivete di noci di cocco".

Imperterrito. Fu per questo che Onoda non si uccise e continuò imperterrito la sua missione. Finché non entrò in scena Norio Suzuki, una specie di avventuriero che lo trovò ed escogitò l'unico modo per riuscire a farlo tornare in Giappone. Contattò il diretto superiore di Onoda negli anni di guerra, il maggiore Yoshimi Taniguchi, e lo condusse a Lubang perché liberasse formalmente Onoda dai suoi doveri di soldato al servizio dell'Impero. E Onoda lo fece pronunciando queste parole: "L'ordine di spiare i soldati americani e sabotare le loro attività è revocato. Tutte le attività militari devono essere interrotte. Deponi le armi, sei dispensato dal giuramento di combattere fino alla morte".

Non è finita, finché non è finita. Con la divisa rattoppata, il fucile d'ordinanza e una riserva di bombe a mano, il guerrigliero finalmente si arrese. Poi prese la sua spada da ufficiale, che aveva conservato con estrema cura per tutti quegli anni, e la consegnò all'allora presidente della Filippine Ferdinando Marcos, il quale lo accolse con tutti gli onori e gli rese la spada. Gli concesse anche il perdono per le trenta vittime che Onoda aveva provocato nei suoi decenni di "guerra". Fu così, infine, che si concluse davvero la Seconda guerra mondiale.

Questo articolo è tratto da Focus Storia. Perché non ti abboni?

2 settembre 2023 Focus.it
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