Nella necropoli di Saqqara, a circa 30 km a sud del Cairo, è stato scoperto un antico laboratorio usato, fino a 2.600 anni fa (XXVI dinastia, 664-525 a.C), per imbalsamare mummie. Qui, vicino alla piramide di Unas (V dinastia), gli archeologi hanno individuato 31 barattoli ben "etichettati" che contenevano ingredienti usati per la mummificazione. Grazie alla tecnica della gascromatografia-spettrometria di massa, eseguita presso un laboratorio del Centro nazionale di ricerca a Giza (Egitto), un team egiziano-tedesco ha scoperto che i sacerdoti di Anubi, unici preposti al rituale di mummificazione, utilizzavano sostanze come cera d'api, olio di cedro e ginepro (che crescono nella regione del Mediterraneo orientale), bitume, resina di pistacchio, gomma damar (ottenuta da alberi che crescono in India e Indonesia) e resina di elemi (Canarium luzonicumun, un albero tropicale originario delle Filippine) per conservare al meglio i defunti.
La chimica dell'aldilà. Questi elementi ritrovati nei barattoli, mischiati e trasformati in balsami e unguenti, secondo antiche ricette, venivano usati per imbalsamare i corpi, come prescriveva il Libro dei morti con le sue 200 formule illustrate. I risultati di questo complesso studio a cui ha partecipato l'Università di Tubinga, l'Università Ludwig-Maximilians di Monaco di Baviera, l'Università di Torino, in collaborazione con il Centro nazionale di ricerca del Cairo, sono stati pubblicati su Nature
Imbalsamatori provetti. Nell'antico Egitto, l'imbalsamazione era usata già nel 3000 a.C. per preservare i corpi dalla putrefazione. In seguito divenne il mezzo per rendere immortale il corpo del defunto e permettergli di ricongiungersi con la sua anima per vivere nell'aldilà. L'imbalsamazione era una procedura elaborata e costosa, quindi inizialmente era riservata solo ai faraoni, ai nobili o al clero di alto rango.
Il rituale. Il tutto si svolgeva secondo un rigido protocollo: il corpo, denudato e depilato, veniva lavato con acqua e salnitro, poi pulito con un panno e cosparso con un colorante rossastro, probabilmente un antisettico. Poi, un pezzetto alla volta, con un lungo uncino, il sacerdote estraeva il cervello dalle narici del defunto e, da un taglio sul fianco sinistro del cadavere, tirava fuori intestino, stomaco, fegato e polmoni. Tutto eccetto il cuore, sede dell'anima, e gli organi genitali, che sarebbero serviti alla mummia per mantenere la propria vita sessuale anche nell'aldilà.
Lavato e seccato. Una volta trattato col natron, una miscela di sali di sodio, che serviva a far assorbire i liquidi organici, il corpo veniva lasciato a disidratarsi per circa 70 giorni.
Poi il defunto veniva lavato, asciugato, imbottito di tela di lino imbevuta di resina liquida e profumi e fasciato con bende impregnate di cera e di gomma vegetale. Infine, dopo averla avvolta in un sudario di tela più resistente, i sacerdoti versavano sulla mummia profumi, unguenti e resina. Le viscere, invece, venivano lavate con vino di palma e trattate con olii e resine per essere poi avvolte e conservate in vasi detti canopi.
La "beauty routine". Queste sono le certezze che finora avevamo sulla rigida procedura praticata dagli Egizi per la mummificazione, quello che non sapevamo ancora, era nello specifico quali sostanze venissero usate per ottenere un risultato così efficace e duraturo nel tempo. Grazie alla scoperta di alcuni antichi testi sui processi di mummificazione e le indicazioni sulle confezioni dei barattoli ritrovati, tutti dotati di nome e relative istruzioni per l'uso, i ricercatori hanno scoperto esattamente quali sostanze venivano usate, anche a seconda della parte del corpo "da trattare".
Per esempio è emerso che la resina di pistacchio e l'olio di ricino venivano impiegati per imbalsamare la testa del defunto, mentre la gomma damar e la resina di elemi, piante dalle proprietà antimicotiche e antibatteriche, servivano a conservare meglio i tessuti e a evitare odori sgradevoli. Infine bitume e cera d'api (di provenienza locale), grazie alle loro proprietà idrofobiche, avevano la funzione di preservare il corpo dall'umidità.
Import-export. Infine, la cosa che ha sorpreso di più il team di ricercatori, come ha sottolineato l'archeologo Philipp Stockhammer dell'Università di Monaco, è che alcune di queste resine provenissero da piante cresciute a centinaia di migliaia di chilometri di distanza: in India, nello Sri Lanka e nel Sudest asiatico. «L'Egitto è una terra povera di alberi che producono sostanze resinose, quindi le resine venivano acquistate o scambiate con terre lontane», afferma Carl Heron, archeologo del British Museum di Londra che ha collaborato alla ricerca, «perciò questa scoperta ci ha dato modo di capire anche quanto fosse progredito e articolato il sistema di commercio in questa antica popolazione».