Storia

Torna in Iraq la tavoletta trafugata dell'Epopea di Gilgamesh

Sette secoli prima di Ulisse, un altro re lancia la sua sfida agli dèi e inizia un viaggio alla ricerca della conoscenza e dell'immortalità: era Gilgamesh, re di Uruk. È un'epopea raccontata in 12 tavole d'argilla, oggi di nuovo riunite in Iraq dopo i saccheggi seguiti alla guerra del 2003 e alle occupazioni.

Una tavoletta d'argilla di 3.500 anni, parte dell'Epopea di Gilgamesh, il più antico testo letterario del mondo, è tornata in Iraq all'inizio di agosto con altri 17 mila reperti archeologici restituiti dagli Usa. Erano stati contrabbandati in seguito all'invasione degli alleati occidentali e all'occupazione dell'Isis. Scritta in lingua accadica (parlata da assiri e babilonesi), la tavoletta fu trafugata nel 2003 e venduta all'asta nel 2014 per quasi 1,7 milioni di dollari a un collezionista dell'Oklahoma. Infine sequestrata nel 2019.
 
L'invenzione della letteratura. La tavoletta non era parte di una copia unica dell'epopea del re di Uruk, "colui che scrutò i confini del mondo alla disperata ricerca della vita eterna", come recitano le sue prime righe. L'opera, trovata nel 1853 in alcune copie fra le rovine del palazzo di Assurbanipal, a Ninive (nell'odierno Iraq), è composta da 12 tavolette: questa versione - chiamata "classica" o "canonica" - è del XII secolo a.C., e deriva da un nucleo di racconti sumeri del XX secolo a.C. e da una versione babilonese di due secoli dopo.
 
L'epopea babilonese di Gilgamesh era all'epoca molto diffusa, a testimonianza che la letteratura agli albori già dava risposte agli interrogativi sull'esistenza. Venne tradotta anche nelle lingue ittita e hurrita, trovata in Anatolia e in Siria; persino la Bibbia ebraica attinse dall'Epopea di Gilgamesh, dove in anteprima si trova il racconto del Diluvio universale, con tanto di Noè locale (Utnapishtim) che costruisce una grande barca e vi mette in salvo gli animali.
 
Educativa. Oggi non viene letta a scuola come l'Odissea, ma è un testo fondamentale sull'amicizia, il senso della ricerca, e sul fine ultimo dell'uomo: l'esperienza, che può bene essere ricordata attraverso un "libro" di argilla che così apre: "Di colui che vide ogni cosa, voglio narrare al mondo; di colui che apprese e che fu esperto in tutte le cose (...). Egli esplorò ogni paese ed imparò la somma saggezza. Egli vide ciò che era segreto (...), e riportò indietro storie di prima del diluvio. Egli percorse vie lontane, finché stremato, trovò la pace (...)". Con una immagine cinematografica si dice al lettore: "Sali sopra le mura di Uruk e percorrile. Saggiane le fondazioni, esamina la base di mattoni.(...) Guarda nello scrigno di cedro delle tavolette, aprine la serratura in bronzo, solleva il coperchio (che cela) il segreto. Prendi la tavoletta di lapislazzuli e leggi i travagli di Gilgamesh, colui che patì ogni ostacolo (.

..)". Dopo questa solenne introduzione inizia il racconto vero e proprio.

La tavoletta detta
La tavoletta detta "del sogno di Gilgamesh" (15x12 cm), parte dell'Epopea babilonese, restituita all'Iraq. © Immigration and Customs Enforcement

Natura e civiltà. Gilgamesh è un re valoroso che però chiama a raccolta di continuo i suoi giovani guerrieri, provocando le proteste di mogli e madri. Gli dei decidono allora di limitare il suo potere incaricando la dea madre Aruru di creare una controfigura, un uomo selvaggio di forza fisica pari a quella Gilgamesh. Enkidu, questo è il nome del ragazzo selvaggio, vive con le mandrie di gazzelle, salva gli animali dalle trappole e dalle imboscate dei cacciatori che a loro volta si rivolgono a Gilgamesh per protestare. Il re allora invia una prostituta sacra che con sei giorni di amore allontana Enkidu dai suoi amici animali e lo convince ad incontrarlo. Tuttavia i due "opposti", il civilizzato narcisista e il selvaggio altruista, litigano subito perché Enkidu trova ingiusto l'istituto dello ius primae noctis. Nella lotta furibonda Enkidu ne esce vincitore. Gilgamesh accetta la sconfitta e stringe una grande amicizia con Enkidu. Intende coinvolgerlo in una grande impresa: andare nella Foresta dei cedri e fare fuori il terribile guardiano, Khubaba.
 
Amici per la pelle. Con l'aiuto di Shamash, il dio sole, la possente creatura viene immobilizzata da 13 venti mentre i due amici la possono colpire alla nuca e al cuore. La dea Ishtar, veduti i due eroi lavarsi e ricomporsi dopo la vittoria, propone voluttuosa a Gilgamesh di diventare il suo amante. Ma lui, con spirito per niente sottomesso, elenca alla dea i nomi degli amanti che lei ha ridotto a mal partito, assieme ai suoi vizi e difetti. Offesa, Ishtar si rivolge a suo padre An, dio del cielo, chiedendogli di scatenare il Toro celeste, un mostro orrendo che tuttavia i due amici riducono a mal partito. Non solo, scherniscono la dea. Enkidu le lancia contro una spalla macellata del Toro celeste. Il sacrilegio ha dunque raggiunto il limite. Gli dei si riuniscono in assemblea e decidono che almeno uno dei due deve morire. La scelta cade su Enkidu, il quale sogna se stesso nel regno dei morti, coperto di piume come un uccello infreddolito (a testimonianza della visione pessimista dell'aldilà nell'antica Mesopotamia). Al risveglio dà segni di squilibrio, si ammala e dopo alcuni giorni muore.

Gilgamesh ha perso la pianta della vita, presa da un serpente che, mangiandola, cambia subito pelle in segno di rigenerazione.
Gilgamesh ha perso la pianta della vita, presa da un serpente che, mangiandola, cambia subito pelle in segno di rigenerazione. © Ricostruzione dello scultore Neil Dalrymple

La storia del diluvio. Gilgamesh piange il suo amico, e vaga come uno straccione riflettendo sul significato della morte. Decide allora di attraversare l'oceano per raggiungere Utnapishtim, l'uomo scampato al diluvio che gli dei decisero di rendere immortale.

Il Noè sumero racconta a Gilgamesh la storia del diluvio: l'umanità, diventata troppo indisciplinata e chiassosa, dava fastidio a Enlil, dio della Terra, che decise di punirla con un diluvio. Il dio della saggezza Enki, per non passare come spia degli umani, raccontò il piano a una capanna magica che riferì a Utnapishtim, assieme ad alcune istruzioni: costruire una grande zattera, quadrata a 7 piani, farci entrare tutti i rappresentanti degli animali e dei mestieri umani. L'imbarcazione, al termine del diluvio, s'incagliò su un monte e Utnapishtim inviò alcuni uccelli in cerca della terraferma - tutti riferimenti che verranno usati nel racconto biblico. Gli dei si pentirono per il disastro provocato, e lo stesso Enlil propose di rendere immortale Utnapishtim, con la moglie. Può quindi egli rivelare il segreto dell'immortalità a Gilgamesh?
 
La pianta della vita. Il consiglio dell'unico uomo immortale è di provare a stare sveglio per 6 giorni e 7 notti, così la morte potrebbe essere sconfitta. Ma il re di Uruk si addormenta già al primo giorno, stanco com'era per la traversata. Sembra che non ci sia più nulla da fare contro il destino ineluttabile degli uomini quando la moglie di Utnapishtim rivela l'esistenza di una pianta della giovinezza, giù nell'abisso. Gilgamesh la cerca e la trova. Potrebbe divenire subito immortale, ma pensa agli altri: decide di portarla a Uruk per mangiarla con i vecchi della città. Grande gesto di altruismo. Peccato però che la pianta gli verrà rubata sulla via del ritorno da un serpente, presso un ruscello dove Gilgamesh si era fermato per riposare.
 
Poi il racconto finisce, cronologicamente, con Gilgamesh che torna a Uruk, mentre la voce fuori campo del testo decanta le sue opere. Proprio così, in questa prima epopea dell'umanità, dove si insegnavano i valori dell'amicizia, del coraggio anche a costo di sfidare una dea, e dell'altruismo, la vera immortalità si può raggiungere con le opere e l'esperienza, dopo avere lottato e conosciuto. Affidandosi al ricordo, a tavolette di argilla che oggi in forma cartacea o digitale chiamiamo libro.

16 settembre 2021 Franco Capone
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