“Di lì non ci passa nemmeno un gatto” disse l’agente osservando l’oblò sul Flaminia, il traghetto che da Genova portava i turisti in Sardegna, il 18 luglio 1987. Ma a bordo non c’erano solo vacanzieri. Il carabiniere e altri 4 suoi colleghi, tutte giovani reclute, accompagnavano un detenuto di “massima pericolosità”, Renato Vallanzasca, l’uomo che negli Anni ’70 i giornali avevano definito “il Bel Renè”, “il bandito dagli occhi di ghiaccio”, “il Dillinger della Comasina”.
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PRIMI PASSI
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NEL MITO
Quell’estate del 1987, dopo già dieci anni di carcere, Vallanzasca non aveva ancora smesso di pensare alla fuga. I carabinieri, fermi davanti alla cabina assegnata per il suo trasferimento al carcere di Nuoro, rimasero perplessi solo per un attimo. Era chiaro che la stanza grande, senza aperture ma con cinque brandine, era per loro, mentre quella piccola, con solo due letti e con il bagno interno, doveva andare al detenuto. Il fatto che ci fosse anche un oblò non li preoccupò troppo. Fu un errore, e quella sbadataggine rappresentò l’occasione che Vallanzasca aspettava. Appena fu chiuso nel suo alloggio, svitò i bulloni dell’oblò e dopo un paio di minuti era già sul ponte, mescolato ai passeggeri. Poiché la nave era ancora attraccata, riuscì a sbarcare e a perdersi nella folla. Sarebbe stata la sua ultima, rocambolesca, fuga.
COME PASSA IL TEMPO
«Sono già passati vent’anni? Che certe parole vengano in mente a un ergastolano potrà sembrare ridicolo, ma non posso fare a meno di dire “come passa il tempo”» scherza Renato Vallanzasca, che oggi si trova nel carcere di Opera, vicino a Milano. «In realtà fu una “vacanza” brevissima, solo 20 giorni. Ma tante cose mi sono rimaste impresse: il fatto che esistesse ancora della frutta deliziosa, per dirne una. Bere in un bicchiere di vetro è stata una sensazione piacevolissima. La cosa a cui feci invece fatica ad adattarmi fu il peso delle posate da tavola, visto che in galera si usano solo quelle di plastica. Comunque, al di là del sesso che ebbi finalmente modo di riscoprire, la cosa che più mi ha esaltato è stato correre a perdifiato in un prato alla periferia di Genova, gridando “Sono libero!”. Fu una sensazione travolgente».
Da Genova, infatti, Vallanzasca si fece quasi tutta a piedi la strada per tornare alla sua Milano. Percorrendo di notte i 38 km del passo del Turchino e trovando poi chi gli offrì uno strappo in auto credendolo un operaio dell’autostrada rimasto a piedi. «La cosa che mi colpì di più una volta a Milano fu che non la riconoscevo. Non è che fosse più bella o più brutta, semplicemente non era quella che ricordavo».
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SORVEGLIATO SPECIALE
«La sfida e una buona dose di incoscienza hanno sempre fatto parte del mio Dna» dice Vallanzasca. «Se una persona si camuffa con qualche piccolo accorgimento diventa pressoché invisibile, nell’indifferenza che regna sovrana tra la gente. Nel mio caso, mi ero tagliato i baffi e mi ero fatto una tinta che, per errore, venne fuori color rosso mogano. Come che sia, a Umberto Gay l’intervista la dovevo. Gliel’avevo promessa». Quell’intervista lasciò sbalordito Achille Serra, allora dirigente alla Squadra mobile di Milano. Era il poliziotto che più di tutti aveva dato la caccia a Vallanzasca.
«Quell’uomo aveva mille risorse» racconta Serra. «Due giorni dopo l’evasione misi un servizio di sorveglianza sotto la casa di una giornalista che, negli ultimi tempi, mi era sembrata subire il fascino nero del boss della Comasina. Lui non venne ma, alla fine, la giornalista si accorse dei pedinamenti e il suo direttore telefonò al questore. Dire che io e i miei collaboratori fummo strapazzati per quell’iniziativa è poco. Fatto sta che seppi poi che Vallanzasca era effettivamente andato a trovarla, ma la sera prima che iniziassimo gli appostamenti».
IL BALLETTO DELLE VERITÀ
«Non andò proprio così» ribatte Carla Ferrari, all’epoca giovane cronista giudiziaria di un quotidiano milanese. «In realtà non subivo alcun fascino e non so da che elementi il prefetto Serra possa averlo dedotto. Ero una giornalista che faceva il suo lavoro. Mi occupavo di giudiziaria e mi si chiedevano interviste anche con ergastolani come Vallanzasca. Quella sera arrivò a casa mia, senza preavviso, quell’uomo appena evaso, con tanto di pistola. Non pensai a cattive intenzioni, ma, nonostante fossi in compagnia di un collega, la tensione era davvero alta. Passato lo choc, mi concentrai sul suo racconto pensando di ricavarne un articolo. Tre ore dopo se ne andò facendomi promettere che avrei concordato l’intervista con Umberto Gay di Radio Popolare. Solo il giorno dopo trovai gli agenti della questura sotto casa mia, in un servizio di copertura a dir poco tardivo».
Lo scoop comunque non ci fu perché l’intervista a Radio Popolare la bruciò sul tempo. «Semplicemente, Gay non accettò che il mio articolo uscisse lo stesso giorno della sua intervista alla radio. Ma quando poi fu pubblicato – apparente frutto della conferenza stampa tenuta a Radio Popolare – c’erano molti particolari che testimoniavano invece di una fonte diretta».
Intanto, il mondo stava cambiando. Gran parte dei vecchi amici della banda o non erano più in vita o erano in galera. Anche la “mala” era un’altra: i banditi e i rapinatori come lui avevano fatto il loro tempo, adesso imperava la droga. «Ma che malavita, quella ormai era solo mala vita» dice Vallanzasca. «Per quella gente l’onore era un optional, la parola data non valeva niente e ciò che contava era quasi esclusivamente il dio denaro. Era chiaro che avevo fatto il mio tempo. Mi sentii come un pesce fuor d’acqua».
«È vero» conferma Serra: «ormai alla Comasina (un quartiere della periferia nord di Milano, ndr) c’era un’altra generazione criminale, lui avrebbe finito per dare fastidio. I primi che se lo sarebbero venduto sarebbero stati proprio loro». Così, lasciò Milano e andò a nascondersi in una pensioncina di Grado (Go) in attesa dell’opportunità di scappare all’estero. Prese il sole e tirò tardi in discoteca, cercando di non sciupare neppure un minuto della ritrovata libertà. Fu solo quando tentò di mettersi in contatto con un’ammiratrice, che gli aveva scritto in carcere, che fu intercettato. Fu fermato a un posto di blocco, con una pistola che decise di non usare. Era rimasto fuori solo 20 giorni.
RECORD
Oggi, con 38 anni di galera alle spalle, Vallanzasca è il detenuto italiano in carcere da più tempo. «Da una dozzina d’anni a questa parte ho sotterrato l’“ascia di guerra”» spiega. «Stando dentro ci si ritrova con più tempo per meditare e ripensare alle proprie scelleratezze, ed è qui che il carcere diventa oltremodo pesante». Dice Serra: «Sì, sta scontando molti anni, ma io sono del parere che debba continuare a scontarli, considerato che tanta gente è stata uccisa e tanti hanno sofferto per causa sua. Certo oggi non lo ritengo più pericoloso, e quando vedo tanti altri lasciare il carcere penso che ci vorrebbe più equità anche nel suo caso. Non fosse altro, per la sua anziana mamma».
Nel 2005 la quasi novantenne mamma di Renato scrisse all’allora presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi, chiedendo la grazia per il figlio. «Non ne ho più saputo nulla» dice Vallanzasca. «Mi aspettavo almeno una risposta, anche negativa. È vero però che negli ultimi mesi ho potuto fare visita alla mia adorata e malandata vecchietta per ben due volte, se pure con abbondante scorta. Quando mi sarà data l’opportunità di recarmi in permesso senza una marea di agenti al seguito, potrò dimostrare di essere un detenuto come gli altri. E forse anche i più restii si convinceranno a darmi ancora una chance».
ALTERNATIVE FUTURE
«Al di là della grazia, io vedo la possibilità di valutare la concessione di misure alternative, tenendo conto che un percorso di reinserimento è cominciato» conferma Luigi Pagano, provveditore del Dipartimento amministrazione penitenziaria della Lombardia. Renato Vallanzasca in questi anni è infatti diventato un mago del computer e da tempo ha un contratto di lavoro con un’associazione no profit.
«Come vedo il mio futuro?» conclude Vallanzasca. «Dare una risposta è impossibile. Sono in galera da tanto tempo, da prima ancora che l’uomo andasse sulla Luna. Posso capire chi pensa che per un assassino come me non sarebbero abbastanza neanche cent’anni di prigione. Ma resta il fatto che io possa e debba continuare a sperare».