Storia

Prima guerra mondiale: un’amara vittoria per l’Italia

Alla fine della Prima guerra mondiale il nostro Paese era allo stremo: 650 mila morti, 450 mila mutilati e l'economia in ginocchio.

Nel novembre del 1918 l'Italia fu travolta da una ventata di entusiasmo: dopo più di tre anni di aspri combattimenti e immani sacrifici, la lunga guerra contro l'Austria-Ungheria era finalmente vinta. Ma il fervore patriottico lasciò presto spazio alla dura realtà. Il bilancio della guerra era tragico: circa 650 mila morti, 450 mila mutilati e tre milioni di reduci. Sul fronte dell'economia il Paese era letteralmente in ginocchio, dissanguato dalle spese belliche, con interi territori devastati e un'industria che stentava a riprendere il suo corso in tempo di pace.

Italia isolata negli accordi di pace. Amare delusioni vennero poi dagli accordi di pace di Versailles. Prima dell'entrata nel conflitto, nell'aprile del 1915, l'Italia aveva siglato a Londra un patto segreto con gli Alleati che, in caso di vittoria, le garantiva un lauto bottino territoriale a scapito dell'Austria. Oltre al Trentino, all'Alto Adige, al Friuli, alla Venezia Giulia e all'Istria, l'accordo prevedeva l'occupazione della Dalmazia (la cui popolazione era prevalentemente croata), ma a opporsi furono poi gli Stati Uniti, entrati in guerra nel 1917 e dunque estranei al Patto. Nei suoi celebri 14 punti, il presidente Woodrow Wilson affermava che la rettifica delle frontiere (anche quelle italiane) dovesse avvenire "secondo linee di nazionalità chiaramente riconoscibili", considerando nullo qualsiasi precedente patto segreto.

Wilson si oppose anche alla richiesta di Roma di ottenere Fiume (odierna Rijeka, in Croazia), che intendeva cedere al neonato Regno dei Serbi, Croati e Sloveni (la futura Iugoslavia) nonostante le richieste di annessione dei numerosi fiumani italiani, maggioranza in città. Di fronte a questi ostacoli, i rappresentanti dell'Italia alla Conferenza per la Pace aggravarono ancor più le cose. Se il Presidente del consiglio, Vittorio Emanuele Orlando, appariva incline alla trattativa, questa fu bloccata in modo intransigente dal Ministro degli esteri, Sidney Costantino Sonnino. Alla fine entrambi decisero di abbandonare la conferenza per protesta, anche se furono poi costretti a tornare al tavolo con la coda tra le gambe quando presero atto che gli Alleati stavano procedendo per conto loro, ignorando l'assenza dell'Italia.

Prima guerra mondiale - Trincea
Soldati in trincea sulle Alpi durante la Prima guerra mondiale. © Everett Collection / Shutterstock

Un'impresa ardita. Gli insuccessi e le gaffe diplomatiche causarono nel Paese un clima di disagio sfruttato ad arte dai nazionalisti. Tra questi spiccavano Benito Mussolini, fondatore e direttore del quotidiano politico Il Popolo d'Italia, e Gabriele D'Annunzio, il "poeta soldato" che per l'occasione coniò la celebre espressione "vittoria mutilata", accusando le potenze riunite a Versailles di negare il giusto compenso "a una nazione vittoriosa, anzi alla più vittoriosa di tutte le nazioni, anzi alla salvatrice di tutte le nazioni".

Il Vate non si limitò alla retorica: chiamato in causa degli stessi fiumani, decise di risolvere la questione con uno spettacolare colpo di mano, simile a quelli che l'avevano reso famoso durante la guerra.

Nel settembre 1919 occupò Fiume insieme a una milizia di volontari (i "legionari fiumani") e a più di 2.500 soldati del Regio Esercito passati dalla sua parte. Dopodiché, tuonando contro il nuovo capo del governo, Francesco Saverio Nitti, definito con sprezzo "Cagoia", creò sotto la sua eccentrica guida la cosiddetta Reggenza del Carnaro, un mini Stato che mescolava elementi nazionalisti ai principi del sindacalismo rivoluzionario. Tra saluti romani e camicie nere, a Fiume D'Annunzio inaugurò un mix di rituali poi ripresi dal regime fascista, ma la sua impresa, pur suscitando entusiasmo, non fece che rimandare la soluzione del problema.

Prima guerra mondiale - Fiume
Ritratto di Gabriele D’Annunzio, impresso su un francobollo emesso nel 1920. © Ilapinto / Shutterstock

Si formano nuovi equilibri. Nel frattempo, Nitti aveva altri grattacapi. L'inflazione galoppava, il costo della vita era quadruplicato e folle esasperate saccheggiavano i negozi di generi alimentari. A farne le spese erano, tra gli altri, i reduci, spesso relegati ai margini della vita civile. La democrazia liberale si stava lentamente sfaldando sull'onda del malcontento popolare. Nelle elezioni del novembre del 1919 i nuovi partiti di massa fecero il pieno di consensi: con il 32% i socialisti guadagnarono ben 156 parlamentari, seguiti dai cattolici del Partito Popolare Italiano di don Luigi Sturzo (con il 20% e 100 seggi) e dal blocco costituito da liberali, democratici e radicali, mentre fuori dal parlamento rimasero i neonati Fasci di combattimento.

I socialisti non furono in ogni caso capaci di sfruttare il trionfo e al loro interno prevalse la corrente massimalista, contraria a qualsiasi alleanza. Così, dopo la parentesi di un esecutivo Nitti, il 15 giugno 1920 fu varato un governo di coalizione presieduto dal liberale Giovanni Giolitti. Questi aveva tirato le fila della politica italiana nei vent'anni precedenti e ritornava ora in scena alla veneranda età di settantotto anni: non proprio "il nuovo che avanza".

Arriva il Biennio rosso. La situazione continuava a essere esplosiva, tra violenti scioperi e rivolte contadine. Per natura incline al compromesso, Giolitti provò a mediare varando riforme in favore dei lavoratori, ma invano, e a prendere sempre più piede furono i fascisti, che si presentarono come i veri tutori dell'ordine. «Le fortune del fascismo cominciarono alla fine del 1920, dopo l'occupazione delle fabbriche e le elezioni amministrative dell'autunno, che segnarono il declino del Partito Socialista», scrive lo storico Emilio Gentile nel libro Il fascismo in tre capitoli (Laterza): «la borghesia e i ceti medi, convinti di non essere più tutelati dal governo, organizzarono forme di autodifesa per riaffermare i diritti della proprietà e il primato nazionale contro il "pericolo bolscevico".

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In questo contesto incendiario, un episodio emblematico ebbe luogo a Bologna il 21 novembre 1920, in occasione dell'insediamento della nuova giunta socialista a Palazzo d'Accursio, sede del Comune, quando una bomba lanciata dalle Guardie Rosse fece dieci vittime e alcune pistolettate uccisero il consigliere comunale liberale Giulio Giordani. Nonostante avessero fatto proprio dell'intimidazione un elemento chiave della loro politica, i fascisti riuscirono con abilità a volgere l'opinione pubblica a loro favore e la cosiddetta "strage di Palazzo Accursio" entrerà poi nell'immaginario collettivo del futuro regime: l'assassino non fu mai identificato, ma Giulio Giordani, pur essendo un membro liberale del consiglio comunale, divenne il "primo martire fascista".

«Con squadre armate organizzate militarmente, nel giro di pochi mesi le camicie nere distrussero gran parte delle organizzazioni proletarie nelle province della Val Padana, dove il Partito Socialista e le leghe rosse erano arrivate a esercitare un controllo quasi totale sulla vita politica ed economica», continua Gentile. Nel frattempo, sullo sfondo, la questione della "vittoria mutilata" restava aperta.

Vittoria di Pirro. Sul fronte diplomatico l'azione di Giolitti fu più efficace e finalmente arrivò l'intesa sulle zone contese: con il Trattato di Rapallo (novembre 1920), Roma rinunciava alla Dalmazia (tranne Zara e le isole di Cherso) e Fiume assumeva lo status di città libera, a cui fu garantito un collegamento territoriale con l'Italia. Si trattava di un buon compromesso, tanto da essere accolto positivamente persino da Mussolini, ma D'Annunzio lo respinse sdegnosamente. Nel Natale successivo, ormai isolato dopo 16 mesi di occupazione, il Vate fu costretto a sloggiare dalla Regia Marina a suon di cannonate.

A conti fatti, in termini territoriali l'Italia aveva guadagnato dalla guerra poco più di quanto le era stato offerto nel 1915 dall'Austria-Ungheria per rimanere neutrale. Nel 1921 il biennio rosso volgeva al termine, e stretti tra repressione esterna e lotte intestine, i socialisti non trovarono di meglio da fare che scindersi, dando vita al Partito Comunista d'Italia. In parallelo, le elezioni segnarono l'ingresso dei fascisti in Parlamento, sotto l'ombrello dei Blocchi Nazionali voluti da Giolitti per fermare le sinistre. Poco più di un anno dopo marceranno su Roma.

La Grande guerra, con nazionalisti e fascisti che avevano ormai fatto della "vittoria mutilata" un tema propagandistico di grande presa, faceva così la sua ultima vittima: la democrazia.

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Questo articolo è tratto da "Un'amara vittoria" di Massimo Manzo, pubblicato su Focus Storia 145 (novembre 2018) disponibile solo in formato digitale.

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