La Russia aveva smesso di fare paura nei convulsi giorni dell'estate del 1991, quando venne sciolto il Patto di Varsavia, cambiando d'un colpo la situazione strategica europea e mondiale. Dopo settant'anni l'Unione Sovietica si stava disgregando sotto i nostri occhi: la Guerra fredda finiva con la schiacciante vittoria del blocco occidentale guidato dagli Stati Uniti, un trionfo ottenuto – per buona sorte comune – senza nemmeno la concreta minaccia di un confronto militare diretto.
L'Armata Rossa, che per quasi mezzo secolo era stata il più potente esercito terrestre del pianeta, doveva sgombrare i Paesi già alleati dell'URSS, abbandonando ingenti quantitativi di materiale bellico, per rischierarsi – drasticamente ridotta in termini di uomini, mezzi e capacità operative – all'interno dei nuovi confini russi. La cortina di ferro diventava di colpo un relitto del passato: nuove prospettive geopolitiche si spalancavano di fronte ai vincitori, mentre alcuni politologi vagheggiavano l'ormai imminente "fine della Storia".
FINE CORSA? In realtà la Storia non è finita. Il crollo del blocco comunista ha aperto un'epoca di grande complessità, affollata di protagonisti le cui azioni sfuggono alle tradizionali categorie dei conflitti tra Stati sovrani, moltiplicando i rischi; e forse abbiamo smesso troppo presto persino di aver paura dell'orso russo.
Superato il contraccolpo della dissoluzione dell'Unione Sovietica, superate anche le umiliazioni della guerra in Cecenia (1994-96) e dell'allargamento a est della NATO (Polonia, Ungheria e Repubblica Ceca ne sono entrate a far parte nel 1999, seguite tre anni dopo dalle repubbliche baltiche), il governo di Mosca ha ricostituito una forza militare potente, sfruttando la stabilità economica raggiunta nei primi anni del terzo millennio e i ricchi proventi delle esportazioni di petrolio e gas naturale.
RIORGANIZZAZIONE. Sotto la guida politica di Vladimir Putin, e grazie alla competenza del ministro della difesa Anatolij Serdyukov (in carica dal 2007 al 2012), la Russia ha riorganizzato e almeno parzialmente rimodernato le proprie forze armate, raggiungendo livelli di efficienza di tutto rispetto, benché su scala ridotta rispetto all'epoca della superpotenza sovietica.
Oggi le risorse militari di Mosca, pur non essendo in grado di competere con la NATO in uno scontro globale – che continua a essere inconcepibile grazie all'esistenza di arsenali nucleari capaci di annientare comunque l'avversario – sono certamente adatte a conseguire scopi più limitati, in un clima di tensione internazionale crescente che presenta rischi molto diversi, ma non meno gravi di quelli dell'epoca della Guerra fredda.
LA ZAMPATA.
Georgia, Ucraina, Crimea: l'orso difende la sua tana. Oggi siamo tornati ad aver paura della Russia? Si tratta di un timore legittimo? Il solo modo per saperlo è analizzare l'impiego delle forze armate di Mosca nei conflitti degli ultimi anni. Dopo lunghi anni di letargo, si iniziò con una brutta sorpresa per l'Occidente.
L'8 agosto del 2008, quando il presidente georgiano Michail Saakashvili, alleato di Washington, decise di invadere le regioni separatiste dell'Ossezia del Sud e dell'Abkhazia, protette da Mosca, le sue forze armate andarono incontro a una rapida disfatta. In cinque giorni le forze russe, appoggiate dalle milizie locali, contrattaccarono e sconfissero i georgiani, costringendo Saakashvili a firmare un tregua umiliante già il 12 agosto. La Russia inviò nei territori contesi circa 30.000 uomini. La cosa più impressionante, dal punto di vista militare, fu la perfetta valutazione, da parte del governo di Mosca, dei rischi e dei benefici strategici dell'operazione: una vittoria fulminea avrebbe privato l'Alleanza atlantica di qualsiasi possibilità di reazione, perché di fronte al fatto compiuto nessun governo occidentale avrebbe mai convinto la propria opinione pubblica a scatenare una guerra per l'Ossezia del Sud e l'Abkhazia. Nelle vicinanze della sua tana, l'orso russo poteva usare gli artigli.
IL CASO UCRAINA. Qualcosa di simile, ma su scala maggiore – e con pericoli più gravi per la sicurezza globale – è accaduto in Ucraina a partire dal 2014. Anche in questo caso, di fronte a un cambiamento geopolitico ostile ai propri confini, Mosca ha reagito utilizzando abilmente la propria forza militare. Lo scopo strategico era chiaro: non perdere il controllo della Crimea, con la vitale base navale di Sebastopoli, e del bacino del Don (Donbass), regione ricca di risorse naturali, abitata per la maggior parte da popolazione di lingua russa.
Uno scontro diretto con le forze ucraine era da escludere, perché in questo caso sarebbe stato troppo alto il rischio di un intervento della NATO: un colpo di mano incruento in Crimea poteva invece riuscire, visto che anche nella penisola la popolazione era a favore di un'annessione alla Russia, mentre un appoggio militare "coperto" ai ribelli separatisti del Donbass sarebbe stato sufficiente a congelare la situazione in attesa di tempi migliori. Oggi la Crimea è saldamente in mano russa (anche se l'annessione non è riconosciuta dalla comunità internazionale), mentre nel bacino del Don il conflitto tra l'Ucraina e le auto-proclamate Repubbliche popolari di Donetsk e Lugansk è andato a vantaggio di Mosca, che ha raggiunto i propri obiettivi strategici con un minimo dispendio di forze.
SIRIA: IL SOGNO DEGLI ZAR DIVENTA REALTÀ? La terza mossa militare di Putin è stata la più audace, anche perché in questo caso non ha riguardato un'area ai confini russi. Per secoli gli zar di Mosca avevano coltivato un sogno: una base navale nelle acque calde del Mediterraneo o del Golfo Persico, per non restare ostaggio dell'accerchiamento dei ghiacci. La Russia è sempre stata una potenza terrestre: per giocare un ruolo globale le mancava il libero accesso ai mari del mondo. Per questo motivo nel 1905 lo zar Nicola II si lasciò coinvolgere nella disastrosa guerra col Giappone, che diede il primo colpo al suo impero. Centodieci anni dopo, nell'ottobre 2015, Vladimir Putin ha giocato con un simile obiettivo ma con abilità maggiore le proprie carte militari in Siria, sostenendo il governo di Assad nella guerra civile contro i ribelli sunniti.
Grazie alle missioni di attacco al suolo compiute da una ventina di cacciabombardieri, all'impiego di una brigata di artiglieria pesante e di qualche centinaio di uomini delle forze speciali, e al lancio di missili da crociera dalle navi della flotta del Caspio, Mosca ha ottenuto infatti un duplice risultato strategico: prima di tutto ha evitato il crollo del governo amico di Damasco, mantenendo così il controllo della base navale di Tartus (dal 2017, la Russia ha la sovranità sul territorio della base) e di quella aerea di Latakia, ovvero un saldo punto d'appoggio nello scacchiere del Mediterraneo; in secondo luogo, ha dimostrato (soprattutto all'Occidente) che le milizie dell'ISIS e delle altre organizzazioni integraliste islamiche potevano essere sconfitte sul campo. Ma questa volta "l'orso non ha scavalcato le montagne", come si diceva ai tempi della campagna sovietica in Afghanistan: Putin è riuscito infatti a coniugare intraprendenza strategica con la consapevolezza dei limiti delle forze a sua disposizione. In altre parole, lo zar del terzo millennio non aveva alcuna intenzione di impegnarsi a fondo in un conflitto mediorientale: meglio continuare a combattere una proxy war, una "guerra per procura" affidata alle forze di Damasco e agli alleati sciiti, conservando intatto il proprio potenziale per difendere l'integrità del territorio e la libertà di manovra politica della Grande Madre Russia.
Tratto dall'articolo "Chi ha paura della Russia?" di Gastone Breccia pubblicato su Focus Storia Wars 24. Leggi un articolo sulle origini della crisi ucraina anche su Focus Storia 185 (marzo 2022).