Storia

Cannibalismo tra i ghiacci: ecco come finì la spedizione di John Franklin

Che fine fece l'equipaggio dell'esploratore John Franklin? Quasi due secoli dopo, grazie alle analisi del DNA, conosciamo l'identità di chi fu vittima di cannibalismo.

Cosa accadde al capitano britannico sir John Franklin e ai 129 uomini del suo equipaggio, intorno al 1850, quando sparirono tra i ghiacci dell'Artico senza lasciare traccia? Oggi, le analisi del DNA hanno permesso di identificare chi morì vittima di cannibalismo.

L'ultimo viaggio. L'avventura di sir John Franklin, una delle più tragiche della storia delle esplorazioni polari, iniziò a Londra nel 1845. La missione di Franklin, che era già alla terza spedizione polare, era quella di affrontare le gelide acque del Nord Atlantico, oltre il Circolo polare artico, per trovare una rotta per l'Asia: il famoso passaggio a nord-ovest.

La spedizione, a bordo dei velieri Erebus e Terror, aveva una durata prevista di tre anni, ma alla fine di luglio del 1845 (pochi mesi dopo la partenza) le navi entrarono nella Baia di Baffin (Canada) e da quel momento scomparvero tra i ghiacci dell'Artico. Nessuno avrebbe più visto vivi quegli uomini.

Le ricerche dei superstiti. Negli anni si susseguirono varie spedizioni inglesi per la ricerca dell'equipaggio disperso. Durante una di queste missioni venne ritrovata una lettera, datata aprile 1848, in cui il capitano James Fitzjames, comandante della Erebus, scriveva che le navi erano state abbandonate il 22 aprile. In seguito, i resti di molti membri dell'equipaggio vennero rinvenuti disseminati in varie località dell'Artico canadese, come l'Isola di Re Guglielmo.

Cannibalismo. Già da tempo sappiamo che gli uomini della spedizione furono costretti al cannibalismo. I ricercatori, analizzando gli scheletri di chi partecipò alla spedizione, avevano già trovato in passato segni lasciati dallo stesso tipo di coltelli in dotazione agli uomini di Franklin: ciò a riprova del fatto che i sopravvissuti praticarono atti di cannibalismo per disperazione. Ma oggi, grazie all'analisi del DNA è stato rivelato per la prima volta a chi appartenevano i resti cannibalizzati recuperati dalla spedizione: il capitano James Fitzjames è stato identificato come la prima vittima nota di cannibalismo tra i membri della spedizione.

Lo studio. Il team di Douglas Stenton dell'Università di Waterloo in Canada ha pubblicato su Journal of Archaeological Science una ricerca che spiega come è stato identificato il capitano Fitzjames. Come spiega Stenton:«confrontando i profili del cromosoma Y di un dente trovato sull'isola canadese di King William con i tamponi delle guance prelevati da uno dei discendenti di Fitzjames è stato possibile risalire al comandante della Erebus. Il discendente donatore aveva una relazione genealogica dimostrata con Fitzjames attraverso il bisnonno del capitano».

Anche le analisi condotte dalla bioarcheologa Anne Keenleyside rivelano segni di taglio nella mascella inferiore su molti dei resti recuperati. Ulteriore indizio del fatto che alcuni degli ultimi sopravvissuti, che stavano cercando di salvarsi via terra, finirono per mangiare alcune parti del corpo di Fitzjames e di altri marinai.

Parola di inuit. Questa ricerca conferma l'importanza delle testimonianze delle popolazioni indigene Inuit. I nativi avevano riferito, nell'ottobre del 1854, a John Rae, uno dei più rispettati esploratori dell'epoca impegnato nella ricerca dei superstiti, di aver visto un gruppo di bianchi morti di fame vicino alla foce del Black River (Canada del Nord) "quattro inverni prima", quindi nel 1850.

A detta degli Inuit quegli uomini mostravano segni di cannibalismo, tanto che Rae scrisse: "La spedizione ha incontrato un destino tanto terribile che la mente dell'uomo può difficilmente immaginare (…). I nostri compatrioti sono stati spinti dalla fame a scegliere l'ultima, terribile alternativa per restare in vita: il cannibalismo".

28 settembre 2024 Paola Panigas
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